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Ricostruire su ciò che resta di Pompei. Di Francesca de Carolis

Dal Forum Salute Mentale - Gio, 01/06/2023 - 19:35

Ricostruire su ciò che resta di Pompei
Due ddl per ricominciare

di Francesca de Carolis

Come ha scritto su questo sito Carla Ferrari Aggradi, riprendo le sue parole che meglio non potrebbero fotografare l’assurdo, “quarantacinque anni dalla legge 180, quarantacinque anni di psichiatria antimanicomiale, di riscoperta di donne e uomini nascoste dietro la sofferenza mentale, di diritti riconsegnati ai ‘pazienti dei servizi psichiatrici’, di rispetto per la loro sofferenza, per la loro vita… come non fossero esistiti”.

E la risposta al suo invito è: sì. Se storia c’è stata, riprendiamola, quella tessitura… 

Per cominciare riproponendo le “Disposizioni in materia di salute mentale”, il disegno di legge del 2017 firmato da Nerina Dirindin e Luigi Manconi, ripresentato nella scorsa legislatura dall’on. Elena Carnevali e dalla senatrice Paola Boldrini, e ora dall’on. Debora Serracchiani e dal senatore Filippo Sensi per dare piena attuazione alla legge 180. Per valorizzare le rimonte e i successi che pure ci sono stati grazie a quella legge e il diritto riconquistato delle persone. 

Come si va discutendo nella piazza del Forum della Salute Mentale. Certo, si è detto, bisognerà iniziare a bussare forte alle porte della politica.

Che ascolterà? Siamo sicuri che qualcosa di buono accadrà.

E allora… “Bisognerà andare per strada e ascoltare, contro tanta sordità, le voci delle persone che bisbigliano la loro sfiducia, la disperazione, il dolore … il dolore di quanto accade nell’invisibile banale quotidianità”. 

Urlare col dolore che danno le cose che accadono…

Le cose che accadono hanno il volto di Wissem Ben Abdel Latif, che è il volto di quanti ancora soffocano legati a un letto di contenzione. Hanno la voce muta di Fedele Bizzocca, malato psichiatrico morto nel carcere di Trani, che è il silenzio di tutti “i casi problematici in particolare di natura psichiatrica”, persone intrappolate, non meno che nelle parole con le quali le pronunciamo, nelle narrazioni tossiche che facciamo di dolorosi fatti di cronaca… e le persone diventano   “mostri” da cui difenderci, invece che persone da curare. Le cose che succedono hanno il nome di Alejandro Meran, intrappolato anche lui, come tanti, nella gabbia dell’irresponsabilità penale… e ora dello sgomento per la crudele morte di Barbara.

Le cose che succedono, meno clamorose, ma non meno crudeli, sono la cronaca di tanta distrazione e di scelte arroganti delle politiche sanitarie degli ultimi tempi, con il fallimentare sistema “ospedale al centro e tanto privato”, che tanta solitudine continua a produrre e che ha di fatto tradito lo spirito della riforma sanitaria del ’78. 

Due, dunque, i corni del problema.  La presenza su tutto il territorio della penisola dei profondi cambiamenti istituzionali e culturali che dalla legge sono derivati e delle pratiche che questa pretende, e il superamento di quell’obbrobrio che viene direttamente dal codice Rocco a proposito di irresponsabilità penale, misure di sicurezza e tutto il corollario che ne discende. E anche per questo è pronto in parlamento il disegno di legge a firma Riccardo Magi, che permetterebbe di superare le vecchie norme del codice Rocco, intanto restituendo, insieme alla responsabilità penale, dignità a chi ne viene privato, e così creando le premesse, come giustamente ha scritto su queste pagine Pietro Pellegrini, per “rifondare su basi nuove il ‘patto sociale’, la giustizia e la cura delle persone con disturbi mentali”.

Riprendendo riflessioni nate negli incontri del Forum, “intanto per cominciare il disegno di legge può essere un buon ‘manuale’ per mettere in moto la terza rivoluzione, come continua a sperare Eugenio Borgna e per dotare il territorio di strumenti adeguati come in diversi dipartimenti di salute mentale già avviene. Per rivalutare soprattutto il ruolo delle persone con esperienza. Per richiamare i servizi, i dipartimenti, le regioni, la magistratura a vigilare sul concreto godimento dei diritti riconquistati…” 

Un disegno di legge che, individuando concretamente livelli di assistenza, percorsi di cura, prevedendo l’operatività dei servizi sul territorio per 24 ore al giorno, mettendo sempre al centro la persona e i suoi bisogni vuole muoversi nell’ambito dei principi del piano d’azione della salute mentale dell’OMS, come della Convenzione ONU dei diritti delle persone con disabilità. Che a tratti sembriamo aver trascurato.

Al centro, ritorna, concreta, in tutte le sue possibili articolazioni, la città che cura, una città che si chiede “come curare” non “dove metterle”, le persone. 

Insomma, un Ddl, come spiega Daniele Piccione, distonico rispetto a quello che sta accadendo, che disegna “una certa idea di mondo” che ci piace. Rimettendo al centro la partecipazione a livello locale, perché dove manca la partecipazione i servizi sono scadenti. E le tristi cronache con protagoniste persone malamente seguite, quando non seguite per niente, ne sono l’evidenza…

Anche su questo il disegno di legge vuole fare chiarezza e dare precise e concrete indicazioni. Nodo quanto mai cruciale, quello del TSO. Troppo spesso mal interpretato nella sua attuazione, tradotto in pratiche violente, è diventato (ancora parole di Piccione) “finestra attraverso la quale il tentativo di ritorno della coercizione, delle oppressioni hanno fatto capolino nell’ordinamento”. Cosa ben lontana dall’idea con la quale era nato un provvedimento che vuole essere non sopraffazione, piuttosto abbraccio di cura che passa attraverso confronto e mediazione. 

Insomma, una legge non da modificare, la 180, ma da rendere pienamente operativa, (ci sono regioni dove mai è stata davvero applicata, mentre oggi subisce attacchi là dove ha meglio funzionato…) contro tanti luoghi comuni e cattive psichiatrie che, mettendo al centro la malattia e non l’uomo, la vogliono di fatto cancellare. 

Ben venga dunque questa sorta di contrattacco contro chi la rivoluzione di Basaglia vorrebbe fare agonizzare per poi cassarla del tutto. Il Disegno di legge che proponiamo come un manifesto, può diventare bandiera di una nuova stagione di aggregazione e di lotta … 

Come una chiamata alle armi, che non può che essere rivolta soprattutto alle più giovani generazioni. Che abbiamo sentito denunciare, fra l’altro, di essere costretti a lavorare con le mani legate, confrontandosi col disinteresse di dirigenti e politici… e pur continuando, come possibile, “a coltivare con le loro forze la vite lì vicino”…

Mi permetto di rubare una bellissima suggestione suggerita da Salvatore Marzolo, giovane psichiatra animatore del gruppo “Ponti di vista”, che citando dal “Libro di sabbia” di Borges, “la febbre e l’agonia sono piene di inventiva”, si chiede: “Allora forse tocca a noi ricostruire su ciò che resta di Pompei? Metaforicamente parlando… E se spesso si indulge nella celebrazione di Pompei, si può forse trovare un compromesso fra i re sepolti e gli artigiani che oggi coltivano la vite lì vicino e ci fanno comunque un buon vino”. 

Senza però dimenticarla, questa Pompei…

“Senza dimenticare. Come Enea porta in spalla Anchise e per mano Ascanio”.

“Sepolto Anchise con tutti gli onori e i pianti, sarà Ascanio a seminare, coltivare viti, fondare città…” Ridando la parola a Peppe Dell’Acqua, che tutto questo nuovo sommovimento ha voluto e con passione ha sollecitato… 

Maggio 2023

Vitalità di una legge. Di Daniele Piccione

Dal Forum Salute Mentale - Mer, 24/05/2023 - 17:32

Il vitalismo di una legge nell’epoca delle passioni fragili
(16 maggio 1978 – 16 maggio 2023)

di Daniele Piccione

Talvolta gli anniversari possono essere crudeli. I quarantacinque anni della l. 13 maggio 1978, n. 180 non potevano essere celebrati con la pienezza di spirito che in molti avremmo voluto, perché una cappa plumbea fa da sfondo al sistema di protezione della salute mentale qui ed oggi. Il tragico omicidio della psichiatra Barbara Capovani pare rilanciare lo stesso clima di urgenza che si avvertiva in Parlamento nella primavera del 1978. Ma solo in apparenza. Anche per questa malintesa urgenza, trasformata in emergenza dal bersaglio errato, mai le celebrazioni per l’epitaffio ai manicomi sono state condotte con una nota tanto acuta di malinconia e inquietudine. Ma il primo sentire, per noi che sosteniamo la legge 180, origina dalla scomparsa di Franco Rotelli, troppo recente per essere anche solo in parte compresa nel suo senso di perdita senza rimedio. Lui che, dello sviluppo effettivo della l. n. 180 del 1978, è stato inesausto e creativo interprete. 

Il lutto e lo sconcerto per la mortale aggressione di Pisa hanno dunque riaperto collateralmente lo scenario del revisionismo, rinnovando l’indebita proiezione sulla legge del 1978 delle immense contraddizioni che abitano i sistemi di protezione sociale, specie nelle aree in cui si incrociano i miti neo-securitari e la penosa regressione del principio di solidarietà (art. 2 Cost.) su cui poggia il nostro welfare

E invece la fertile stagione della deistituzionalizzazione, con i suoi frutti maturi racchiusi nell’epocale legge del maggio del 1978, andrebbe riletta in termini di modello paradigmatico superando in breccia il minimalismo di chi la interpreta come un’isola puntiforme in un mare di inefficienze ed inadeguatezze. Quarantacinque anni fa l’urgenza della legge – va ricordato – nasceva dalla prospettiva referendaria che minacciava di disarticolare comunque la legge giolittiana sugli ospedali psichiatrici civili, lasciando però in sua vece un deserto abbandonico. Vi era poi la contingenza politica a richiedere di condurre in porto una pagina di legislazione che avrebbe poi costituito l’ultimo sussulto parlamentare dell’epoca del disgelo dei diritti costituzionali. Non solo il quarto Governo Andreotti, fortemente voluto e costruito da Aldo Moro, era il primo a fondarsi su potenziali basi di allargamento della maggioranza che comprendeva il partito comunista, ma l’opera di Tina Anselmi, allora Ministro della Sanità, garantivano irripetibili prospettive di successo ad una legge di costruzione dei servizi che si sarebbe poi integrata con l’istituzione del Sistema Sanitario Nazionale, a vocazione universalistica e gratuita, nel dicembre del 1978. 

Se dunque quell’urgenza umanitaria, che era stata anche la cifra caratteristica delle pratiche e della dottrina di Franco Basaglia, può far pensare ad un tessuto normativo radicaleggiante e percorso da un vivido afflato di sviluppo della comunità politica, i valori compositivi alla base della l. n. 180 del 1978 avevano già un’inedita esperienza di sperimentazione sociale alle spalle. Insomma, erano stati testati sul terreno concreto dei territori.

Il modello di assistenza psichiatrica “senza l’ombra del manicomio sullo sfondo o nelle retrovie” (Goffman), stava prendendo piede a Gorizia, a Trieste e nelle città dell’espansione antistituzionale come Arezzo e Livorno. Di più, le idee delle cooperative, tessuto partecipativo di sostegno ai servizi territoriali, aveva cominciato a fare capolino, rappresentando il superamento della monolitica alternativa all’ospedale psichiatrico rappresentata dalla sola Comunità terapeutica. La netta recisione, nel campo della legislazione civile, del terribile stigma connesso alla presunzione di pericolosità del malato di mente segnava, invece, uno straordinario mutamento culturale. Già solo queste istanze tradotte in disposizioni di legge avrebbero marchiato a fuoco un epocale traguardo nella nostra cultura giuridica, capovolgendo lo statuto delle psichiatrie tradizionali in favore di un possente slancio verso la tutela della salute mentale integrata sui territori, vicina ai bisogni delle persone, inclusiva e non segregante. 

Ma il valore epocale della legislazione italiana – captato prontamente dall’Organizzazione Mondiale della Sanità – si diffuse grazie alla diversificazione dell’offerta terapeutica e riabilitativa garantita dall’ombrello dei dipartimenti di salute mentale, dall’accanita lotta allo smantellamento – anche nelle metropoli lungo il sofferto decennio degli ottanta – degli ospedali psichiatrici, con il loro carico di marginalizzazione intollerabile. Fu vinta la scommessa di tratteggiare un riferimento legislativo alla prevenzione; si rivelò decisivo il diffondersi di pratiche pioneristiche nel campo del mutuo aiuto e del protagonismo degli utenti dei servizi, di seminali spunti di quello che, nei decenni successivi, sarebbe divenuto il pieno coinvolgimento del terzo settore. Coraggiose soluzioni di demolizione del nodo gordiano tra psichiatria organicistica e potere di abrasione dei diritti costituzionali testimoniarono l’onda lunga delle avanguardie culturali, anche nella traiettoria dell’attuazione della legge, così da alimentare un vitalismo intergenerazionale che avrebbe poi consentito la diffusione, a livello internazionale, dei valori della nostra legislazione. 

Sin dalla sua entrata in vigore, su questo straordinario impianto legislativo di progresso sociale della nostra comunità politica, si è tuttavia abbattuta la scure dei malintesi, delle manomissioni delle parole attraverso slogan e litanie, dell’inaridimento dei flussi di alimentazione finanziaria, non di rado anche delle strumentalizzazioni a fini esplicitamente revisionistici. Così, come in grande è del resto accaduto persino alla stessa Costituzione repubblicana, sulla legge si sono scaricate le contraddizioni del selvaggio recedere della protezione sociale, della truffa delle etichette dietro le quali si annida il ritorno di nuovi e subdoli involucri manicomiali e di pratiche da consegnare al dimenticatoio, riproposte sotto le vesti ingannevoli del nuovismo. Come sempre capita, alle leggi gentili che “restituiscono la soggettività” (Rovatti), è toccato in sorte di battersi contro molti e talvolta occulti avversari. Ma dietro questo assedio che a tratti è parso poter aprire brecce nell’effettività di una legge tra le più vissute e partecipate della storia repubblicana, si aprono orizzonti vasti che gli assedianti dovrebbero scrutare, se non altro per poter ragionare di ciò che, persino opportunisticamente, converrebbe loro in termini di rendimento degli indirizzi di politica sociale e sanitaria. E allora alla tentazione di puntare tutto e forte su nuovi luoghi dell’esclusione, su modelli di regionalismo competitivo e non solidale, sullo smantellamento della salute mentale integrata grazie al sistema dei distretti delle città che curano, sulle leve di un modello di protezione sociale sempre più classista, selettivo e crudele con i fragili, il vitalismo persistente della legge Basaglia potrebbe opporre nuove e insperate risorse culturali. 

A scacciare le ombre che gravano su questa primavera inquieta, potranno al fine giungere in soccorso le direttrici internazionali sostenute dall’Organizzazione Mondiale della Salute, dovrebbe spandersi la consapevolezza di proseguire la lotta alle segregazioni occulte, con appositi strumenti legislativi che peraltro già giacciono in Parlamento; si concretizzeranno le linee di attuazione della l. n. 227 del 2021, in materia di disabilità, che rilanciano la deistituzionalizzazione e il rafforzamento della capacitazione delle persone che vivono l’esperienza del disturbo e della disabilità. Non tutto è immobile, dunque. Lo scenario è frastagliato.

Più di ogno cosa, occorre puntare su una nuova generazione di operatori, psichiatri, utenti e familiari forti abbastanza da scavalcare le pressioni regressive in favore della revisione legislativa. Sono loro i baluardi a difesa  della legge Basaglia. Ed è a queste forze vive della società che occorre guardare con ottimismo per rilanciare sui tavoli di quello che manca ancora: la tutela della salute mentale nelle carceri, il superamento degli imperfetti equilibri del trattamento del c.d. “folle reo”, il progressivo allineamento dell’ordinamento ai principi della Convenzione ONU sui diritti delle persone con disabilità. 

Ecco che allora, se si sapranno riproporre i valori vitalistici della legge 180, se ne potrà rilanciare la compiuta attuazione. Così, il nuovo mondo dei diritti all’inclusione e alla vita indipendente (art. 19 Convenzione ONU) piena ed integrata, nelle sue pieghe sociali e non solo sanitarie, verrà in aiuto del vecchio mondo che, pur apparendo minoranza radicata in una piccola parte di Italia,  seppe farsi egemone e riconsegnare, quarantacinque anni fa, i diritti fondamentali ai propri fratelli fragili, liberandoli dalle mura che circondavano i giardini di Abele (Zavoli). 

Quando tutto questo capiterà, forse, da apparenti assedianti, i revisionisti della legge Basaglia potranno ritrovarsi assediati.

L’incontro e la storia. Di Mario Novello

Dal Forum Salute Mentale - Lun, 22/05/2023 - 18:54

di Mario Novello, psichiatra
da “Salute Internazionale”

Per Barbara Capovani

L’uccisione della collega Barbara Capovani ha suscitato indignazione e rabbia, pietas e vicinanza per la famiglia, per i colleghi e le persone che in lei trovavano un riferimento.

Le attestazioni di stima evidenziano che aveva scelto un campo caratterizzato non da pericoli e violenza, come si enfatizza oggi, ma da senso e valore, pur continuando la società a generare aree sempre più ampie di sofferenza psico-sociale e di marginalità, scaricandole sui servizi pubblici che così vengono indeboliti (1). 

Le vocazioni diminuiscono e professionisti validi si licenziano, contribuendo all’impoverimento delle risorse.

In passato, io stesso ero fortunosamente scampato a una fulminea e violentissima aggressione, potenzialmente letale, sulla porta di casa mia da parte di un uomo, con una storia di grandi difficoltà psico-sociali, fatto uscire dal carcere perché stava male e di cui ero stato, per due anni, il principale riferimento accanto al Centro di Salute Mentale.

Da quella aggressione due osservazioni preliminari: i) una relazione terapeutica e di sostegno positiva può trasformarsi in odio e distruttività, al di là di errori, colpe, cattive pratiche e/o disservizi; ii) chi giunge a tali azioni è comunque una persona con la propria storia psico-sociale di traumi e dolore, da ricostruire e da comprendere.

Comprendere è, infatti, un dovere etico, professionale e umano, una questione di metodo ed evita di lasciare pericolosi vuoti che alimentano inconsapevoli errori nei comportamenti, nelle relazioni e nelle organizzazioni, ma comprendere non significa giustificare. Ciascuno rimane responsabile delle sue azioni fino a prova contraria.

Non è accettabile che qualcuno debba morire così assurdamente, ma accade.

Ammetterlo non significa accettare con rassegnazione e inerzia che accada, come una ineluttabile fatalità, ma, dopo il dolore, siamo obbligati a una posizione lucida e razionale per tentare di evitare che si ripeta.

Se è accaduto, qualcosa ci è sfuggito di mano e non lo abbiamo capito, anche senza colpe.

Comprendere è un obbligo etico, professionale e istituzionale verso chi lavora e verso i cittadini che esprimono bisogni di salute, ma anche verso le vittime, attribuendo alla loro morte significato per gli altri affinché non accada più. 

È doloroso ma la morte e la vita hanno relazioni profonde, come la donazione di organi voluta da Barbara, testimonia.

Ogni volta che si verifica un incidente, ad esempio a un aereo o a una nave, è normale istituire una commissione che accerti i fatti per evitare che accada ancora, compiendo un’indagine senza pregiudizi con il solo scopo di mettere in luce il problema e porvi rimedio.

Anche in questo caso sarebbe auspicabile l’istituzione di una commissione, di cristallina onestà intellettuale e capace di muoversi liberamente all’interno dell’ampio repertorio delle conoscenze delle psichiatrie e delle ricche esperienze di salute mentale.

La conoscenza dell’omicida, Seung, pone alcuni problemi che ne aprono altri a catena, in un labirinto in cui non dobbiamo perdere il filo.

Alcuni punti cardinali:

  1. il problema dell’incontro e della storia è questione complessa, una delle contraddizioni fondamentali della psichiatria, e può declinarsi tra due estremi fondamentali:
  2. a) il primo è caratterizzato dallo sguardo che cerca il sintomo e la malattia come oggetto, a cui sono estranee la soggettività, la storia personale e l’incontro interpersonale. È lo sguardo che pietrifica, stabilisce una distanza e predetermina alcuni tipi di percorsi e di organizzazioni, di identità e di destini, di relazioni/non-relazioni/controrelazioni, condizionando la malattia e falsificandola.
  3. b) il secondo è caratterizzato dall’accoglienza e dalla comprensione, non in senso ingenuo e buonista, ma fenomenologico. Scrive Borgna (2) : «La sfida… è quelle indirizzata a indicare come l’analisi fenomenologico-antropologica binswangeriana abbia in sé, esplicite o implicite, conseguenze radicali nella prassi: sulle forme concrete con cui si svolga l’incontro con il paziente: con il suo mondo-della-vita (con la sua Lebenswelt)……La restaurazione della soggettività e della intersoggettività in psichiatria (che si rispecchia così drammaticamente nella analisi e nella descrizione della vita di Suzanne), e la conseguente sferzante contestazione del senso (nonsenso) di una «normalità» psichica astratta e formale, hanno condotto in ogni caso (al di là di ogni realizzazione pratica) alla riconsiderazione delle fondazioni epistemologiche della psichiatria».

Nella quotidianità i Servizi incontrano le persone e i loro bisogni offrendo per lo più l’affettività e le soggettività di chi vi opera, ma le due polarità, modi antitetici di concepire la scienza, di vedere il mondo e di agire, ne strutturano il campo di azione.

  1. il problema della diagnosi. Si legge che l’omicida presentava un disturbo di personalità con tratti antisociali, esponente di una neo-lombrosiana categoria bio-psico-sociale di individui con comportamenti violenti (“antisociali”), i “pericolosi” a prescindere dalla diagnosi, da cui la società si deve difendere, come stabiliva la antica legge manicomiale.

Gli schemi nosografici costituiscono convenzioni tra esperti che mutano nel tempo a seconda delle prospettive di conoscenza e delle “mode” e riflettono bisogni e interessi diversi (codifiche e sistemi assicurativi).

Nella quotidianità gli schemi nosografici (il sistema diagnostico DSM 5 è il più diffuso) producono e riproducono un doppio della realtà che non rappresenta la realtà.

Si è venuta sviluppando una concezione pericolosa: si considera che i disturbi della personalità, recente “invenzione”, non siano modificabili dagli psicofarmaci e, quindi, che una presa in carico sia inutile/impossibile. Nella categoria sono stati inseriti aspetti delle psicosi e bisogni sociali: l’etichetta diagnostica può nascondere sofferenze molto profonde, osservate unicamente nell’aspetto comportamentale “antisociale” e non riconosciute.

Dichiarate di “non competenza” e abbandonate al loro destino, le persone non trovano una sponda di aiuto e di cura, rimbalzate tra carcere e SPDC, tanto più “antisociali” quanto più respinte, spesso anche con la violenta complicazione dell’assunzione di sostanze psicotrope.

Questa è una pericolosissima concezione di una psichiatria “alienata” che si fonda e si misura sull’efficacia dei farmaci, espellendo da sé e dalla sua competenza ciò su cui i farmaci non hanno un effetto misurabile ed evidente, conoscenze comprese. 

Vengono così respinte persone con livelli complessi di sofferenza che richiedono accoglienza e cura. A chi dovrebbero rivolgersi? Si ripropone ogni giorno la domanda di Basaglia “Cosa è la psichiatria?”. E ancora Basaglia: «Avevamo una struttura esterna molto agile, nella quale era affrontata la malattia fuori dal manicomio. Vedevamo che i problemi riferiti alla pericolosità del malato cominciavano a diminuire: cominciavamo ad avere di fronte a noi non più una “malattia” ma una “crisi “. Noi oggi mettiamo in evidenza che ogni situazione che ci viene portata è una “crisi vitale“ e non una “ schizofrenia “, ovvero una situazione istituzionalizzata, una diagnosi. Allora noi vedevamo che quella schizofrenia era espressione di una “crisi “esistenziale, sociale, famigliare, non importa, era comunque una crisi.  Una cosa è considerare il problema una crisi e una cosa è considerarlo una diagnosi, perché la diagnosi è un oggetto mentre la crisi è una soggettività, soggettività che pone in crisi il medico, creando quella tensione di cui abbiamo parlato prima» (3).

  1. la tipologia dei Servizi e le dinamiche istituzionali hanno un reciproco e interattivo legame con i criteri che li animano e li sottendono, con il funzionamento e la declinazione nel tempo. Possono essere Servizi di Psichiatria o Servizi di Salute Mentale che promuovono la salute mentale dei singoli, delle famiglie e delle comunità. L’omicidio della collega richiede una ricognizione precisa della strutturazione dei Servizi, del loro funzionamento, degli obiettivi e delle dinamiche, dei percorsi delle persone nel “circuito psichiatrico”, dei fallimenti e delle frustrazioni (nessuno è esente), delle posizioni di proattività oppure di attendismo e altro. Il problema delle risorse è fondamentale ma non sufficiente se non si verificano obiettivi, stili e metodi, per quale “realtà”.
  2. il problema della violenza: la storia di G.P. Seung va guardata anche attraverso la lente della violenza, quella che può avere subìto e quella che può avere agito fino all’ultimo, individuando i contesti di rinforzo (i social in primis).

Nel mondo occidentale si assiste a una sorta di “sdoganamento” mentale della violenza.

Continue aggressioni nel mondo sanitario e nella scuola (“a me tutto subito” da parte di ‘padri e madri di famiglia’), femminicidi, violenze sessuali, bullismo e stragi, crescente criminalità di minori – emarginati o meno, pedofilia e istigazioni all’autodistruzione (anoressia e suicidio) in rete,  violenza negli stadi e nelle periferie, difficilmente controllabile da parte delle Forze dell’Ordine e con politiche inadeguate, mostrano una profonda crisi della società all’interno della quale si iscrive anche il dramma della collega.

Senza negare l’eventuale peso della malattia e delle dinamiche istituzionali nè la responsabilità personale di Seung, ma senza scaricare tutto sulla sua individualità.

Vengono richieste da alcune parti professionali misure organizzative e legislative:

* a sacrosanta tutela di chi lavora nel campo della Salute e delle attività fondamentali per la collettività, ma ogni misura implica l’implementazione quali-quantitativa dei Servizi

* ma anche che permettano l’internamento per pericolosità sociale, certificabile senza commissione di reati, prescindendo dalla Costituzione e dalla giurisprudenza. 

Ovvero viene richiesto un ritorno alla L 36/1904 quando i ricoveri in manicomio avvenivano con la sola ‘diagnosi’ di pericolosità sociale e questo è da respingere con assoluta decisione.

I fondamenti scientifici ed epistemologici della psichiatria entrano in fibrillazione e si crea una tensione insanabile con i diritti costituzionali.

La Sentenza della Cassazione, Sez. Penali Unite., n. 9163, 2005, in tema di imputabilità, evidenza la delicatezza del problema: «l’ideologia dell’epoca…rifiutava il principio di presunzione di innocenza dell’imputato (ritenuto il portato “delle dottrine demoliberali, per cui l’individuo è posto contro lo Stato, l’autorità considerata come insidiosa e sopraffattrice del singolo” e faceva dire ad altre autorevoli espressioni della dottrina dell’epoca che “lo Stato Fascista, a differenza dello Stato democratico liberale, non considera la libertà individuale come un diritto preminente, bensì come una concessione dello Stato accordata nell’interesse della collettività”, riaffermandosi “l’interesse repressivo” come suo “elemento specifico” e giungendosi… alla richiesta estrema di sostituire la regola in dubio pro reo con quella in dubio pro republica. Ma i tempi sono cambiati. La Costituzione…».

Bibliografia
1. Basaglia F, Ongaro Basaglia F. La maggioranza deviante. 1971. Einaudi, Torino.
2. Borgna E. Introduzione a: Binswanger L. Il caso Suzanne Urban. Storia di una schizofrenia. 1994. Marsilio Editori, Venezia.
3. Basaglia F. Conferenze Brasiliane. 2000.Raffaello Cortina Editore, Milano.

Le persone stanno bene quando i centri di salute mentale stanno bene.

Dal Forum Salute Mentale - Gio, 18/05/2023 - 17:00

Gianni Cuperlo intervista Peppe Dell’Acqua

Se passeggiate nel cuore di Trieste, tra Piazza Unità e le stradine risanate di Cavana potrebbe capitarvi d’incrociarlo. A passeggio con una Golden Retriver dal pelo chiaro, un tantino acciaccata per l’età e che gli cammina di fianco a passo ridotto. Giuseppe (Peppe) Dell’Acqua a Trieste ci vive da più di mezzo secolo. Era il 1971 quando cominciò la sua avventura basagliana. Nel senso letterale, di collaborazione e condivisione della sola vera rivoluzione che la città abbia conosciuto nelle traversie di una storia tormentata. Due anni più tardi, assieme a Vittorio Basaglia e Giuliano Scabia, gli sarebbe toccato inventarsi la parabola-simbolo di quel Marco Cavallo che, dipinto d’azzurro, continua a peregrinare su e giù per l’Italia a testimonianza dell’intuizione destinata a fare della dignità del “malato” un traguardo di civiltà. Anche per questo viene naturale pensare a lui quando l’attacco alla 180, la legge che di Franco Basaglia porta il nome, trova sponde solide nel governo della destra. Non che in passato non fosse accaduto, la novità di ora è che, numeri alla mano, quell’assalto potrebbe concretizzarsi in una restrizione pesante delle maglie che la riforma del 1978 aveva allargato come mai prima di allora. Ma cosa vorrebbe dire abbattere quell’ultimo totem di una libertà conquistata dopo i decenni (o secoli?) della repressione di vite condannate a non vivere mai dentro strutture manicomiali deprivate di qualsiasi umanità? 

*

Peppe, dobbiamo per forza muovere dalla cronaca e dalla tragedia di Barbara Capovani, la psichiatra di Pisa che un ex paziente ha ucciso a colpi di spranga. L’emozione che ha prodotto è stata larghissima, non solo tra le colleghe e i colleghi e i tanti che l’avevano conosciuta. Com’era prevedibile quella morte atroce ha riaperto il cantiere mai chiuso di dubbi, critiche, accuse alla legge che Basaglia, e tante e tanti di voi con lui, avete battezzato. Allora, partiamo da qui e dalla domanda più provocatoria. Perché si dice e si pensa che la legge 180 abbia qualche responsabilità politica e morale sulla morte della dottoressa Capovani?

No, assolutamente no! È assurdo solo pensarlo, prima di tutto bisognerebbe interrogarsi sulla responsabilità di chi avrebbe dovuto avere in cura Gianluca Seung (l’uomo che ha ucciso Barbara Capovani ndr). La legge di riforma viene chiamata in causa per coprire le storture organizzative, la miseria degli investimenti del Governo e delle Regioni, il rifiuto delle psichiatrie e delle accademie di contribuire al cambiamento culturale che la legge non poteva non pretendere. Dobbiamo domandarci che cosa hanno fatto governi e ministeri che si sono succeduti nel corso degli ultimi vent’anni. Le Regioni hanno utilizzato le loro autonomie per realizzare venti sistemi sanitari differenti, abissali diseguaglianze nelle organizzazioni, nel godimento dei diritti costituzionali per i cittadini, nell’uso sempre più inappropriato delle risorse: sistemi organizzativi molto segnati da culture manicomiali; ricorso a un privato mercantile e un privato sociale succube di politiche regionali di risparmio e soprattutto mancante di una qualsivoglia visione; sistemi di contenzione e di controllo nei servizi ospedalieri di diagnosi e cura.

Mi stai dicendo che la 180 diventa l’alibi per tutto ciò che non si è fatto, ma resta il dramma di tante famiglie che denunciano la propria solitudine e impotenza

Ma vedi, ancora una volta dopo 45 anni la legge di riforma viene chiamata in causa proprio per nascondere vuoti abissali, abbandoni colpevoli, inadeguatezza di psichiatrie che per farsi hanno un bisogno ostinato di rendere oggetto l’altro: centri di salute mentale vuoti, ambulatori isolati nel deserto di territori non curati, diagnosi, farmaci e le trincee fangose dei servizi psichiatrici di diagnosi e cura. E residenze che “ospitano” ormai da decenni sempre le stesse persone. Eppure in tanti luoghi, a volte intere regioni, gruppi di lavoro che ancora credono nelle possibilità del cambiamento utilizzano proprio quella legge come un formidabile strumento di progresso e di buone cure per tante persone, specie quando vivono disturbi mentali severi o molto severi, specie se giovani. Ci sono amministratori che “prendono a cuore” il destino dei matti e buone cooperative e associazioni di cittadini che, con regolamenti regionali adeguati, attenzione alla formazione permanente degli operatori, arricchiscono il capitale sociale dei loro territori. 

Allora perché è così difficile spezzare l’automatismo che collega tragedie come quella di Pisa alla chiusura dei manicomi?

Faccio questo mestiere da più di cinquant’anni e ricordo che eventi tragici come quello che stiamo vivendo accadevano prima che chiudessero i manicomi e prima della legge 180. Che siano sempre accaduti non toglie orrore a questi eventi. I pochi dati di cui disponiamo ci dicono che, a dispetto dei luoghi comuni, la chiusura dei manicomi non ha comportato la crescita di omicidi per mano di “malati pericolosi” e di suicidi. Anzi vi è stata una sensibile diminuzione a dispetto di quanto ancora oggi i titoli dei giornali insistono a volerci far credere. Dovrei ricordare quanto accade negli altri paesi europei e drammaticamente negli Stati Uniti dove non c’è mai stata una legge 180. Ma sarebbe un discorso troppo lungo.

Puoi ricordare anche solo per titoli il cammino che condusse alla riforma, insomma ciò che la rese possibile?

All’inizio del ‘900 il soggetto, l’individuo, la persona, fino a quel momento resi invisibili dal prevalere del positivismo scientifico, cominciavano ad emergere. Nel secondo dopoguerra cominciò a prendere forma una preoccupata e diffusa attenzione alle grandi istituzioni. All’epoca erano milioni gli internati e i manicomi, in una sorta di diffusione pandemica, erano tutti uguali in tutto il mondo. Piccole innovazioni e sperimentazioni nascono in molti ospedali psichiatrici in Europa come negli Stati Uniti. In Italia non accade nulla fino agli anni sessanta quando un giovane neurologo viene chiamato a dirigere l’ospedale psichiatrico di Gorizia.

Quel giovane neurologo era Franco Basaglia

Si, era il 16 novembre 1961 quando Basaglia che, con altri giovani medici e filosofi si era appassionato agli studi di fenomenologia, entra nel manicomio di Gorizia. Vede non solo la violenza delle porte chiuse e delle contenzioni. Vede “da filosofo” una violenza più grande: gli uomini e le donne non ci sono più. Solo internati, senza più volto, senza più storia. Per incontrare le persone cominciò ad aprire le porte, ad abolire tutte le forme di contenzione, i trattamenti più crudeli. Gli internati divennero persone, individui. Da allora fu possibile immaginare un altro modo di curare e di ascoltare: il malato e non la malattia, le storie singolari e non la diagnosi, le possibilità di vivere e di abitare la città. Cominciò un cammino tra insidie e resistenze che apparivano insormontabili.

Si può dire che la “rivoluzione” parte da lì?

Appare chiaro a molti che la condizione degli ospedali psichiatrici è deplorevole, in Europa come in Italia. Ci sono differenti proposte per affrontare il tema, sia da parte delle società scientifiche che da parte delle amministrazioni politiche. Le ipotesi sono due: o bonificare gli ospedali psichiatrici rendendo più vivibile la vita al loro interno o cominciare a proporre un cambiamento nella prospettiva del fuori. Per me quanto accade a Gorizia nel 1961 con l’ingresso di Basaglia è sicuramente un inizio.

I passi successivi?

All’apertura di Gorizia farà seguito nel 1968 una legge proposta dal ministro della sanità socialista Mariotti che stabiliva la possibilità di ricovero volontario negli ospedali psichiatrici, quindi di dimissione e sostanziali cambiamenti organizzativi. Nel corso degli anni ‘70 in ogni regione e provincia tentativi di trasformazione più o meno profondi vengono messi in atto sulle indicazioni della legge. Una forte azione di pressione politica venne svolta dai presidenti riuniti nell’Unione delle Provincie Italiane all’epoca presieduta da Michele Zanetti che a Trieste sosteneva la direzione di Franco Basaglia. Per i presidenti gli ospedali psichiatrici sono un costo sempre più insostenibile e fonte di continui “incidenti”. Sono più di 100.000 gli internati e circa 90 i manicomi, compresi alcune grandi istituzioni di proprietà della Chiesa. Le proposte di cambiamento degli OP procedono assieme a quanto si andava muovendo per la riforma del servizio sanitario nazionale.

La politica, partiti e parlamento, come seguivano quel processo?

Nel 1975 c’è il grande successo elettorale del Pci con la strategia del compromesso storico. Nello stesso anno il programma elettorale della DC dedicava un ampio paragrafo proprio alla questione degli OP. Intanto in alcune province (Perugia, Trieste, Arezzo …) procedevano più spediti i progetti di apertura. Nel 1974 nasce a Gorizia “Psichiatria Democratica” che negli anni sarebbe stata un punto di riferimento costante per le politiche di cambiamento e di approccio critico alla questione psichiatrica. Nel 1977 il partito Radicale promuove un referendum per chiedere la chiusura dei manicomi anche a seguito di ripetuti incidenti e violenze. Il Governo si trova nella necessità di superare con una legge i quesiti referendari  e deve farlo in estrema urgenza. Viene stralciata dall’impianto della legge che istituirà il Servizio Sanitario Nazionale la parte relativa alla salute mentale. Tina Anselmi, la partigiana Gabriella, ministra della sanità, istituirà una commissione e la legge 180, con il voto unanime, verrà varata il 13 maggio del 1978. Potrei dire che questa legge si propone prima di tutto l’ingresso del “malato di mente” nel terreno del diritto costituzionale. Da qui la conseguenza sarà anche la chiusura dei manicomi.

Qualcosa hai accennato, ma quali furono secondo te le ragioni che fecero coincidere in quello stretto arco di tempo – parliamo del 1978, l’anno tra i più tragici della storia repubblicana – il rapimento Moro e l’approvazione in Parlamento, oltre alla 180, di altre due riforme a modo loro fondamentali, l’istituzione del Servizio Sanitario nazionale e la legge 194 sull’interruzione volontaria della gravidanza?

Gli anni ‘70 sono stati drammatici, ma anche gli anni in cui il nostro paese, con una sequenza di leggi ha avviato un cambiamento radicale nel campo dei diritti. Queste leggi che tu ricordi accadono in un momento di grande tensione. Nel 1978, quasi a rappresentare le contraddizioni che stavamo vivendo, nella stessa unità di tempo e di spazio, viene votata la legge 180 e viene barbaramente ucciso Aldo Moro. È un momento pesante per tutto il paese, i temi della sicurezza sono all’ordine del giorno e tuttavia si approva una legge che allarga considerevolmente le possibilità di libertà e convivenza. L’art.32 della Costituzione, dopo 30 anni finalmente guarda anche i matti, soprattutto i matti, come altre categorie di cittadini che necessitano di attenzioni maggiori. Fa impressione che proprio in quel momento Aldo Moro, giovane costituente che aveva letteralmente scritto l’art.32 discutendo con uomini come Calamandrei, La Pira e Togliatti, pesando le parole per garantire diritti soprattutto alle persone private della loro libertà, veniva assassinato dalle Brigate Rosse.

Oggi al governo c’è la destra. E la destra, lo sappiamo, non sono le felpe di Salvini, ma è un impianto culturale – c’è chi la chiama un’ideologia – che fonda sulla paura di un nemico, migranti, poveri, disperati o senza dimora, la sua forza e consenso. Allora, consentimi un’altra sintesi impropria, ma per questa destra chi sono veramente i “matti”? Un alibi? Un bersaglio?

Devo dirti che non solo per questa destra ma, in una sorta di regressione che stiamo vivendo, i matti sono rientrati nel grigiore dei luoghi comuni, nella categoria dello scarto. La pericolosità che proprio la legge di cui stiamo parlando ha cercato di separare dalla malattia mentale è tornata a occupare tutto il campo. Di nuovo da più parti la gestione della pericolosità viene attribuita agli operatori della salute mentale. Una legge che si propone di garantire alle persone che vivono il disturbo mentale le cure, anche quando le rifiutano, nel rispetto della dignità e della libertà, viene stravolta. Viene stravolta immaginando una psichiatria e le sue istituzioni come difesa sociale. Una destra di fronte a una storia che cerca di costruire una “normalità larga” tende a ridurre tutte le diversità in un unico contenitore. Migranti, tossicodipendenti, giovani inquieti, persone che vivono ai margini della norma saranno “contenuti” di volta in volta con nuove proposte di inasprimenti, di restrizioni, di condanne severe, di internamenti.

So che vivi con angoscia il clima che si sta alimentando. Sinceramente credi davvero che la 180 e tutto ciò che rappresenta potrebbe imboccare dopo quarantacinque anni il sentiero della sua cancellazione?

Penso proprio di no. In questo momento così drammatico sto avvertendo la preoccupazione di molti operatori della salute mentale e anche di psichiatri accademici che rifiutano di pensare alla fine della legge 180. Certo, ci sono quelli che urlano, che chiamano in causa con stupidità e ignoranza antipsichiatrie, negazione della malattia e quante altre stupidità si possa immaginare. La legge 180 in realtà ha trasformato talmente tanto il nostro modo di vedere l’altro che credo ci vorrebbe veramente del tempo se si volesse cambiare. Il nostro paese, che si voglia o no, ha costruito ovunque servizi orientati verso il territorio. Funzionano male, sono poco finanziati, mal organizzati, ma ci sono e costruiscono di per sé una cultura e una strategia di lavoro. Devi ricordare che Norberto Bobbio ha definito la legge 180 l’unica riforma che è stata fatta nel dopoguerra, una riforma, nel vero significato della parola, che cambia radicalmente il nostro modo di vedere l’altro. Sono troppe le voci e le persone e le esperienze che si oppongono e che continueranno a lavorare perché questa storia vada avanti. 

Giunti dove siamo cosa si dovrebbe fare per evitare che quel graffito sul padiglione di San Giovanni nel “tuo” Ospedale psichiatrico a Trieste, “La libertà è terapeutica”, finisca per essere un’eredità del secolo che ci siamo lasciati alle spalle?

C’è tanto da fare e tanto è stato fatto. Bisognerebbe che tutti criticamente e consapevolmente guardassero a questi 45 anni che sono un tempo storico e si possono considerare tutti i passaggi utili e positivi che hanno innescato visioni prospettiche di futuro. Migliaia sono le persone che hanno potuto vivere e vivono oggi il loro disturbo mentale in una condizione di relazione, di vita con gli altri, di soddisfazione. Inoltre credo che dalle esperienze fatte è possibile cercare di cogliere tutti quegli aspetti operativi, culturali ed etici per riprendere una politica di salute mentale territoriale. Già 5 anni fa alcuni di noi hanno formulato un progetto di legge presentato al senato nel 2017, ripresentato con il governo successivo e oggi depositato in parlamento dall’on. Serracchiani e dal senatore Sensi. Ed è una proposta di legge che dettagliatamente cerca di dire come è possibile rimotivare i servizi, le Rems, le residenze, la formazione. Mi piacerebbe che in questo frangente venisse considerata.

Credi che dare vita a una rete nazionale di “Comitati popolari per la 180” potrebbe essere il sentiero da imboccare? E quali garanzie lo Stato dovrebbe offrire per preservare il valore di quella riforma? Insomma, è solo questione di risorse, strutture, personale, o non siamo dinanzi al bisogno di rimotivare quella “rivoluzione” anche sul fonte della cultura che può ancora sorreggerla?

Tu fai delle domande che contengono già delle belle risposte. Come probabilmente sai la fatica che alcuni di noi fanno è quella di mettere in moto questo “comitato Nazionale”. Abbiamo messo insieme un Forum Salute Mentale che nasce nel 2003 per guardare criticamente alla realizzazione della trasformazione. Esiste un Coordinamento Nazionale per la Salute Mentale con centinaia di associazioni. Cerchiamo faticosamente di far funzionare momenti di partecipazione che a me sembrano sempre più fragili e distanti. Un comitato potrebbe prendere atto di queste realtà e soprattutto della proposta di legge e darsi finalmente una linea. Con tanti altri colleghi ci siamo vergognati nel leggere l’intervista ad Andrea Filippi pubblicata in prima pagina dal Manifesto. Non entro nel merito delle enormità che questo collega sindacalista della CGIL ha potuto dire. Ma è davvero singolare l’ignoranza che traspare quando si parla di antipsichiatria e di ideologie senza neanche rendersi conto del significato delle parole che si dicono. Ci siamo vergognati nel sentire dichiarazioni che si trovano nei peggiori social.

Tra qualche giorno nel parco di San Giovanni “Conferenza Basaglia” e Copersamm promuovono un evento per ricordare Franco Rotelli, con te e pochi altri, uno degli eredi diretti di Basaglia. Non ti chiedo un ricordo di Franco. Ti chiedo se avete seminato il tanto da farci sperare che nel dopo ci sarà chi continuerà a camminare sul sentiero giusto.

Posso solo dirti che abbiamo assistito, siamo stati protagonisti di un cambiamento radicale che si è dovuto interrogare sulla natura della malattia mentale, sulla violenza delle istituzioni della psichiatria, sulle politiche nazionali e regionali e ancora sulle cure, sulle forme di vita dei pazienti con disturbo mentale, sulle opportunità reali di integrazione. Questo lavoro non ha potuto non toccare i cittadini che vivono quest’esperienza, i familiari, gli operatori e i giovani in formazione. Una semina credo ci sia stata. Ricordo i viaggi di Marco Cavallo che ancora continuano, sarà a Brescia capitale della cultura nei prossimi giorni. Marco Cavallo continua a ricordare che quella rivoluzione non è stata altro che una rivoluzione delle coscienze che ci ha permesso di interrogarci, di vedere finalmente al di là del matto pericoloso, del malato di mente, dell’internato, un soggetto, una persona, un cittadino. Di vedere il dolore, le contraddizioni, la storia. Se volessero buttare a mare questa legge sarebbe ricacciare nell’invisibilità le persone che vivono l’esperienza del disturbo mentale. La legge suggerisce continuamente la strada del riconoscimento dell’altro che per prima cosa dobbiamo accogliere nella sua individualità, nella sua storia, nelle sue passioni, nei suoi sentimenti, nei suoi dolori, nei suoi fallimenti. La legge 180 invita a negoziare più che a reprimere. E la negoziazione è sempre possibile nel momento in cui io riconosco l’altro.

Con la regia di Erika Rossi hai raccontato a teatro la storia di quel vostro miracolo laico. Eravate tu e Massimo Cirri a conversare su una panchina (e a far cadere qualche lacrima a chi vi stava davanti). Si chiamava “Tra parentesi – La vera storia di un’impensabile liberazione”, capisco la fatica e l’emozione, ma il tempo è ora. Possiamo annunciare che la panchina sta per tornare?

Che dirti? Più che bello sarebbe utile. Non so quanto riuscirei a reggere la fatica. La conversazione l’abbiamo replicata per più di 50 volte, poi la pandemia. Chissà se ci saranno teatri che vogliano riproporre quella produzione. Noi ci siamo.

45 anni dopo liberarsi ancora dal manicomio. Di Maria Grazia Giannichedda.

Dal Forum Salute Mentale - Mer, 17/05/2023 - 17:00

DI Maria Grazia Giannichedda
da “il manifesto” 

La coincidenza fra i 45 anni della “legge 180” del 13 maggio ’78 e l’uccisione, il 21 aprile scorso, della psichiatra Barbara Capovani da parte di Gianluca Seung, che era stato suo paziente nel servizio psichiatrico di diagnosi e cura (Spdc) di Pisa, non può che farci guardare alla riforma partendo da quel fatto. Non per rievocarlo ma per cogliere la questione che pone e che è centrale nella legge di riforma e nella formazione della psichiatria occidentale moderna: il rapporto tra psichiatria e giustizia, e in particolare tra sofferenza mentale, capacità “di intendere e di volere” e pericolosità sociale. Questi temi si sono in gran parte persi nelle discussioni di questi giorni, segnate da toni di diffamazione della riforma, e degli operatori che la prendono sul serio, come non si sentivano più dagli anni ’80. Si capisce che questa destra al governo rafforzi le speranze di restaurazione, ideologica e giuridica, di quella psichiatria che ha sempre mal digerito la riforma e che vorrebbe spostare il discorso sulla “180”. Va ripresa invece la questione psichiatria e giustizia, perché solo da qui può passare un rilancio vero del sistema della salute mentale in Italia ormai ridotto in miseria, che certo ha bisogno di più soldi ma anche di riprendere a ragionare e fare ricerca sui propri strumenti, sui modelli organizzativi, sui fondamenti. 

Sia chiaro: il dramma dei giorni scorsi interroga non una ma due istituzioni, servizi psichiatrici e psichiatria da una parte, polizia e giustizia penale dall’altra. Il 30 marzo Seung era andato in questura a Lucca per presentare delle denunce, come faceva spesso e non mancava di divulgarlo via social. Di cosa sia accaduto non sappiamo che il finale: Seung spruzza spray al peperoncino contro i presenti, la Questura lascia che si allontani chiedendo a Comune e Asl di attivare un accertamento sanitario obbligatorio che nessuno mette in atto. Sul giovane pendeva già una misura di sicurezza disposta da un magistrato di Lucca per l’aggressione, nel 2022, contro un vigilante del tribunale. Il perito psichiatra aveva dichiarato Seung “incapace di intendere e di volere” e “di accertata pericolosità sociale”, e a gennaio di quest’anno era diventata definitiva la sentenza che avrebbe comportato libertà vigilata o ricovero in una struttura, ma anche questa disposizione nessuno la mette in atto.  

Starà alla magistratura dipanare il problema delle responsabilità. Intanto però una domanda possiamo farcela: perché Seung non è stato preso sul serio? Solo sciatteria? Lentezza burocratica? Ma forse il problema è che le sue parole e i suoi ripetuti gesti significativamente violenti (anni fa aveva ferito al volto un operatore del servizio psichiatrico) sono stati rubricati come solo malati e quindi di pertinenza solo psichiatrica, motivando così quel gioco di scaricabarile delle persone “disturbanti” che i servizi psichiatrici conoscono bene ma in cui la psichiatria non è innocente affatto. 

La “legge 180” ha liberato la psichiatria dal controllo della pericolosità, anche nel momento del trattamento obbligatorio. La pericolosità resta un compito di polizia e giustizia penale che non sono esentate dall’eseguirlo anche quando la persona presenti un disturbo mentale. Questa è la legge, che quindi obbliga a costruire protocolli di comunicazione e collaborazione tra psichiatria e giustizia, dei quali fa parte, quando è inevitabile, anche la cura di una persona in condizioni di sofferenza mentale sottoposta a misure restrittive o detenuta. Questi protocolli ci sono, ma non ovunque, comunicazione e collaborazione lasciano a desiderare, mentre i servizi di salute mentale troppo spesso sembrano non aver interiorizzato affatto la fine del mandato al controllo, sembrano organizzati cioè come se pensassero ancora al malato di mente pericoloso e incapace, con cui non si può interloquire né negoziare, da sedare e custodire per poterlo poi curare.  Come spiegare altrimenti il fatto che la gran parte degli Spdc hanno porte e finestre chiuse, minimi o assenti spazi esterni, usano i rituali di spoliazione degli oggetti, costringono alla vita in pigiama, usano la contenzione meccanica insieme a quella farmacologica? Certo, finché i centri di salute mentale sono solo ambulatori per il controllo dei farmaci, con colloqui radi e sporadiche visite domiciliari, diventa inevitabile questo tipo di Spdc, in cui può anche accadere di morire legati a un letto. Non si dica che queste constatazioni gettano discredito sulla psichiatria: al contrario sono quegli psichiatri che programmano, con gli amministratori, e che gestiscono questo tipo di servizi a screditare la psichiatria, confermandone lo stigma di figlia ed erede del manicomio. Né si dica che questi sono solo effetti dei tagli perché da decenni vengono denunciati questi problemi e indicate le soluzioni: si veda ad esempio il disegno di legge nato nel 2017 e di recente ripresentato da Serracchiani alla Camera e Sensi al Senato. Anche il tema della modifica del Codice penale per il superamento dell’istituto dell’incapacità per vizio di mente ha un suo disegno di legge, presentato dal deputato Magi. Questo per dire che gli strumenti per il rilancio del sistema pubblico della salute mentale nel nostro paese ci sono, a condizione che crescano le risorse ma anche la volontà di liberarci davvero dal manicomio.

13 maggio 2023

Legge 180. Sip: “Norma rivoluzionaria da riposizionare nel nostro millennio” di Emi Bondi .

Dal Forum Salute Mentale - Mar, 16/05/2023 - 17:18

Ai drammatici eventi Pisani hanno fatto seguito commenti scomposti più spesso denigratori nei confronti di quegli operatori della salute mentale che nei percorsi di cambiamento hanno creduto e continuano a credere. La legge stessa è stata sottoposta a invettive e critiche che hanno mostrato l’ignoranza che pensavamo appartenesse a tempi ormai lontanissimi. La dichiarazione della SIP a firma della sua Presidente qualche giorno dopo, calmati gli animi, sembra aver trovato, per ora, un equilibrio che apre a una comprensione più adeguata di quanto accaduto e a prospettive, nel rispetto della legge, di ampliamento del ventaglio delle risposte che il Servizio di Salute Mentale deve poter disporre per tutti i cittadini.

Legge 180. Sip: “Norma rivoluzionaria da riposizionare nel nostro millennio”
di Emi Bondi*

da Quotidiano Sanità

La drammatica vicenda dell’omicidio di Barbara Capovani, psichiatra a Pisa, ha riacceso il dibattito mai sopito sulla Legge 180 del 1978 meglio nota come Legge Basaglia: il provvedimento legislativo che ha posto fine all’esperienza manicomiale in Italia. Dibattito che, nella sostanza, ha continuato a mostrare l’ambiguità culturale, da sempre rivolta nei confronti della malattia mentale e della psichiatria, fra le istanze di custodia, che sottendono la pericolosità dei malati psichici e le istanze di cura, che ridanno loro la dignità di cittadini e il diritto ad una cura rispettosa della dignità della persona.

Le società scientifiche impegnate nella salute mentale sono state sollecitate da tali eventi a rileggere criticamente l’attuale situazione organizzativa e a guardare alle prospettive future con l’esperienza maturata anche dall’applicazione della legge del 2014 che abrogava l’esistenza degli Ospedali Psichiatrici Giudiziari (OPG) dove erano detenuti i soggetti autori di reato ma giudicati incapaci di intendere e volere.

Nonostante le evidenti difficoltà di “costruzione” di un’assistenza psichiatrica di comunità (territoriale ed ospedaliera) assimilabile alla sanità tutta, diffusa e omogenea su tutto il territorio nazionale, che possa garantire a tutti il diritto alla cura , il nostro Paese è punto di riferimento a livello internazionale di un assetto giuridico-normativo di tutela dei diritti delle persone affette da disturbi mentali fondato su solidi principi etico-deontologici. La rete dei servizi pubblici, porta avanti ,sia pur con difficoltà sempre crescenti ,la cura e la presenza in carico di quasi un milione di cittadini l’anno.

Da tali conquiste la Società Italiana di Psichiatria ritiene che non si possa e non si debba tornare indietro, sebbene i successi raggiunti debbano essere oggi riconsiderati come un nuovo punto di partenza per un processo di miglioramento e di sviluppo che appare inderogabile, se vogliamo realmente tutelare e attualizzare la spinta innovatrice che la legge 180 ha rappresentato. Questo alla luce delle esperienze fatte e dei limiti e carenze evidenziatesi nel tempo: sono infatti radicalmente mutati i bisogni di cura della popolazione e le richieste portate dai cittadini ai Servizi e profondi sono stati anche i cambiamenti del paese.

I cambiamenti sociali

La Salute Mentale è il perno della vita di un Paese: pesa moltissimo sulla costruzione del futuro della popolazione e la psichiatria, in particolare, è la disciplina da anni più esposta a tagli di risorse, soprattutto umane (le più importanti in questo ambito) ed a ridimensionamento delle strutture necessarie per dare una risposta attiva.

Va innanzitutto considerato il considerevole mutamento dell’utenza dei Servizi pubblici, costituita attualmente solo al 20-25% dai Disturbi dello Spettro Psicotico e Bipolare, sulla cui presa in carico è stato organizzato l’intero servizio all’atto della chiusura dei manicomi dove questa tipologia di soggetti rappresentava la quota più rilevante dei ricoverati. Si è evidenziata nel corso degli anni, con sempre maggiore intensità la richiesta di intervento per altri disturbi, molto diffusi e profondamente invalidanti per le persone che ne soffrono. Si intende qui fare riferimento a Disturbi Depressivo e d’Ansia, tutta la categoria dei Disturbi di Personalità e Disturbi da Uso di Sostanze per arrivare ai più recenti bisogni emergenti relativi ai soggetti con Disturbi del Neurosviluppo (ADHD e Disturbo dello Spettro Autistico).

Tutto questo richiede inevitabili aggiornamenti a carico dei modelli organizzativi e dei processi e metodi di cura nei Servizi italiani. In particolare, appare necessaria l’integrazione effettiva e sempre più capillare di percorsi di cura, con interventi rispettosi del rapporto costo/efficacia e basati sulle evidenze scientifiche che i dati disponibili indicano come ancora scarsamente diffusi nel nostro paese. Specifico obiettivo è ridurre la divergenza che si osserva tra gli interventi a cui i cittadini avrebbero diritto, perché di provata efficacia sulla base dei risultati della ricerca internazionale e i trattamenti che vengono realmente erogati nella pratica clinica nei servizi pubblici, per carenza di personale formato, di risorse ma anche per modelli organizzativi inadeguati.

La prevenzione

La consapevolezza del fondamentale ruolo dei fattori psicosociali nel rischio di sviluppo, mantenimento e aggravamento di molti disturbi mentali – in particolare dei disturbi mentali gravi e persistenti – richiede un più capillare sforzo di prevenzione primaria, secondaria e terziaria da parte dei Servizi, ma anche la consapevolezza della necessità di rivedere e potenziare gli strumenti di welfare, soprattutto a favore delle fasce più deboli della popolazione, nonché il sostegno alle famiglie. Diviene centrale adottare politiche di prevenzione primaria come già accade per altre discipline che possano fornire informazioni corrette alla popolazione sull’impatto che alcuni comportamenti hanno nell’aumentare il rischio di sviluppare patologie mentali. Campagne informative sui rischi connessi all’utilizzo di sostanze stupefacenti con particolare riferimento attenzione ai cannabinoidi nell’adolescenza e l’effetto protettivo che possono avere buone abitudini sul sonno e la regolare attività fisica sono da identificare come priorità. Altrettanto rilevante è potenziare l’attivazione di servizi per la intercettazione precoce dei disturbi psichiatrici al fine di favorire diagnosi e trattamenti precoci che possano diminuire gli effetti di disabilità associati alla patologia mentale.

La riorganizzazione

E’ necessaria una riorganizzazione dei Dipartimenti di Salute Mentale che possa prevedere, in Italia, modelli organizzativi elastici nei quali, alla tradizionale rete dei servizi (Centri di Salute Mentale, Centri Diurni, Day Hospital, SPDC, Strutture Residenziali) possano affiancarsi strutture ancora più specialistiche di secondo livello – interdistrettuali o interdipartimentali – dedicate a fasce di utenza definite per caratteristiche (giovani, anziani, femmine…) e bisogni specifici (es. Esordi Psicotici, DCA, Peri-Parto Disturbi di Personalità gravi, Autori di reato, disabilità, autismo, etc..); altrettanto vale per la diversificazione di ruolo delle strutture ospedaliere (es: con previsione di posti letto più realistici numericamente, rispetto ai bisogni crescenti per le acuzie e post-acuzie e per patologie specifiche, es: DCA) e per la necessaria profonda revisione dell’assistenza residenziale, con una effettiva diversificazione delle strutture da accreditare in riferimento all’intensità , alle tipologie di cura erogate e alle patologie trattate.

Gli investimenti in personale

Il quadro descritto non può prescindere dalla necessità di ingenti e stabili investimenti nel settore della salute mentale, da destinare soprattutto a colmare la carenza sempre più evidente di personale di tutti i livelli e tipologia di professionalità, che sta mettendo in seria difficoltà anche il mantenimento dei pur insufficienti standard attuali. Adeguando, quanto meno, le dotazioni di organico ai nuovi criteri di accreditamento proposti nel documento di Agenas del 2022. La Psichiatria è una disciplina “a basso costo” in termini di tecnologie e costi generali, ma non può prescindere dal “capitale umano”, essendo la relazione terapeutica, alla base della cura per ogni tipologia di trattamento effettuato”. La salute mentale non può restare il fanalino di coda della sanità italiana ed è fondamentale un adeguamento stabile dei fondi disponibili in una misura non inferiore all’8-9% del totale del budget della sanità (come in altri paesi europei come la Francia). Oggi siamo sotto il 3%, a fronte di quel 5%, previsto ormai più di vent’anni fa, dalla conferenza stato regione. Creare una rete di servizi capace di dare risposta ai bisogni di salute significa in primo luogo, attivare una rete di professionalità (psichiatri, psicologi, infermieri, educatori e assistenti sociali etc), in numero e competenze adeguate.

La sicurezza

I drammatici avvenimenti di questi giorni hanno portato in primo piano, all’attenzione dell’opinione pubblica, quanto già denunciato da tempo dagli operatori e dalle organizzazioni sindacali: la necessità di garantire la sicurezza di chi opera in sanità. Sicurezza sia all’interno delle strutture, sia nelle fasi di gestione dei pazienti in crisi acute all’interno del pronto soccorso, sia in tutte le strutture su cui convergono gli autori di reato con disturbo mentale grave che vedono oggi nella REMS l’unico riferimento normativo, peraltro già ampiamente sature da anni in assenza di una politica di adeguamento delle carceri per i soggetti, pur portatori di disturbo mentale, che lì devono e possono stare con Servizi interni funzionali e diversificati per esigenze cliniche e di controllo sociale

La riforma degli OPG

L’incremento degli invii ai Servizi Psichiatrici degli autori di reato sta spostando i problemi irrisolti delle carceri alle strutture che hanno sostituito gli OPG) – le cosiddette REMS – ed alle altre strutture del Dipartimento di Salute Mentale costringendo la psichiatria, senza difese, ad occuparsi di chi non può stare alle regole di una normale convivenza quando queste regole ha già dimostrato di trasgredirle ampiamente. Dalla legge di riforma degli OPG non esistono ancora Servizi e percorsi terapeutico-riabilitativi differenziati in grado di garantire cura ma anche rispetto delle pene che derivano dal riconoscimento di reati particolarmente gravi compiuti da soggetti violenti e con il rischio concreto della reiterazione degli agiti.

Le difficoltà citate, se non risolte, non possono che avere conseguenze drammatiche che – alle estreme conseguenze – si manifestano con episodi di violenza quali quelli accaduti un po’ dovunque e che hanno generato, per livello di gravità, l’omicidio di Pisa, con autori di reato che rimangono liberi per mesi in attesa del posto in REMS e vengono, nel contempo, affidati alla “vigilanza” di strutture sanitarie – come i Centri di Salute Mentale – che non posseggono capacità di controllo del comportamento violento e sono esposti costantemente al rischio. Sono centinaia le segnalazioni di fatti violenti ogni giorno, ma migliaia sono quelli non denunciati per palese impossibilità di intervento e di risposta anche da parte degli organi addetti quali magistratura, polizia e carabinieri.

Se a questa dimensione del problema, si aggiunge la mancanza, sempre più “drammatica” di operatori professionale (medici specialisti ed infermieri specializzati in salute mentale), nonché la già citata crisi organizzativa dell’assistenza psichiatrica, si crea un contesto sempre più difficile da gestire, che sta allontanando gli operatori sanitari dai servizi e costringe il personale in servizio, pur dando il massimo possibile a non rispondere alla richiesta di salute mentale del paese.

La proposta: Nuovo Progetto Obiettivo per la salute mentale

La storica diseguaglianza esistente nel sistema assistenziale, che la regionalizzazione della sanità sembra aver accentuato nel tempo, richiede una rinnovata e più forte azione di indirizzo delle politiche di azione ed integrazione sanitaria della salute mentale, comprensiva dei servizi per le dipendenze e per gli adolescenti. In tal senso la SIP ritiene che l’Italia non abbia necessità di nuove Leggi, quanto di un nuovo Progetto Obiettivo Nazionale sulla Salute Mentale. Un progetto complessivo, unitario ed a forte integrazione, che parta dalla prevenzione e che possa via via portarne ai principi della promozione di salute, della sicurezza degli operatori, consentendo ai Ministeri coinvolti, tantissimi (salute, istruzione, interni, giustizia, università), di parlarsi tra loro.

*Presidente della Società Italiana di Psichiatria (SIP)

Il club No Restraint.

Dal Forum Salute Mentale - Gio, 11/05/2023 - 17:00

La posizione del Club Spdc No Restraint per prevenire i rischi cui sono esposti gli operatori  della salute mentale 

La morte della collega Barbara Capovani ci dice della inadeguatezza della prevenzione dei comportamenti pericolosi connessi alla malattia mentale. 

Si inserisce in una catena di notizie drammatiche che riguardano persone con problemi di salute mentale.  

Ad Este un uomo, che aveva minacciato le assistenti sociali, muore 48 ore dopo che è stato ricoverato in psichiatria (12 aprile) ; nel vicentino un uomo, da in escandescenze, sottrae la pistola ad uno dei carabinieri intervenuti, ferisce un vigile urbano e poi viene ucciso; (23 aprile); la Garante delle persone private della libertà della Sardegna denuncia la segregazione cui è sottoposto il signor Bruno, che vive da anni con le mani legate ed il volto rinchiuso da una maschera (14 aprile); una inchiesta giornalistica documenta i metodi violenti in uso presso la comunità Shalom nel bresciano (13 aprile). 

Per gli operatori della salute non è di nessun aiuto pratico sapere che ex post vi sarà una giusta punizione del colpevole del reato. A loro interessa che il prossimo reato non accada.  Gli operatori della salute mentale sono consapevoli del fatto che il loro lavoro non può che svolgersi a contatto con le persone che hanno problemi di salute mentale. E’ però ben diverso se questo contatto assolve a finalità di cura o viene piegato impropriamente a compiti di custodia e controllo sociale, che squalificandone il lavoro di cura li espone a a rischi che non dovrebbero competere loro. 

Se c’è una differenza tra il manicomio e l’attività di cura della salute mentale sta nel fatto che in questo secondo caso il benessere degli operatori e quello dei pazienti si alimentano a vicenda. Crescono tanto la fiducia reciproca che la condivisione della responsabilità.  Il paradigma della salute mentale per la prevenzione e la presa in carico trova evidenza in una miriade di esperienze e buone pratiche. Ne scrive Saraceno in “Innovazione in salute mentale nel mondo”, constatando purtroppo la difficoltà in cui tali pratiche versano proprio in Italia, dove quell’approccio si può dire sia nato. 

L’impoverimento dei servizi italiani può essere descritto da vari punti di vista.  Perdita di risorse, perdita di cultura, perdita di prestigio ed attrattiva, perdita di autonomia.  E’ un problema davvero serio che non può essere risolto sposando teorie complottiste (è responsabilità di un gruppo minoritario ma molto potente di psichiatri/antipsichiatri) né sfruttandolo a fini politici (occorre una legislazione meno permissiva).  

La morte di Barbara Capovani va onorata riportando la psichiatria a pieno titolo nell’ambito della salute. Chi di dovere dia un segnale forte in questo senso, richiamando tutte le forze dell’ordine a svolgere il proprio ruolo anche quando l’ordine pubblico è turbato da persone con problemi di salute mentale ed a farlo con professionalità.  

Tale chiarezza porterà anche a considerare diversamente la cosiddetta “posizione di garanzia” che appartiene agli operatori sanitari, ma solo e limitatamente alle competenze relative alla prevenzione e alla diagnosi, cura e riabilitazione delle malattie e non può essere estesa a funzioni di tutela dell’ordine pubblico per le quali non si ha né il ruolo né la competenza. 

La separazione tra cura e custodia non potrà dirsi ultimata senza una modifica delle norme sulla impunibilità per vizio totale o parziale di mente (art 88 e 89 CP). Come si sa tale norma risale ancora al codice Rocco (1930) ma non trova più alcuna giustificazione né sul versante delle scienze cognitive né in quello del diritto. Il riconoscimento della piena dignità del malato di mente anche attraverso l’attribuzione della responsabilità dei propri atti deve portare alla eliminazione dal codice penale della non imputabilità per malattia mentale. E’ questo il cordone ombelicale che lega la psichiatria alla funzione di custodia e controllo. Va tagliato. Chi giudica non può essere chi cura. E tanto meno a quest’ultimo può essere affidata l’esecuzione della pena. Né si può irrogare la sofferenza della malattia come surrogato della espiazione della colpa. Non si può fare giustizia inibendo il diritto alla salute.

La separazione tra cura e custodia è condizione necessaria perché possa essere invertito il processo di impoverimento dei servizi per la salute mentale. In modo che i nuovi urgenti investimenti vadano nella direzione corretta.  

C’è stato un tempo in cui l’articolazione del dipartimento salute mentale lungo tutti i livelli d’assistenza, dal domicilio all’ospedale, passando per centri di salute mentale, centri e residenze riabilitativi, era presa a modello per i processi di riorganizzazione ed integrazione dei servizi territoriali con gli ospedali. E’ necessario dislocare nuovamente risorse lungo tutta la filiera. Così come è indispensabile riattivare tutti i nodi della integrazione socio sanitaria. E’ necessario che ciascuna rete dipartimentale garantisca con tempestività una effettiva continuità di presa in carico, avendo una dimensione adeguata ad una effettiva integrazione con quanto è presente nel singolo contesto territoriale. I mega dipartimenti con un bacino d’utenza di milioni di abitanti non sono adatti e vanno riportati a dimensioni “umane”. 

Siamo consapevoli che i processi di reclutamento e formazione degli operatori richiedono tempi adeguati, tuttavia la direzione deve essere indicata immediatamente : il campo della salute mentale appartiene a pieno titolo al Servizio Sanitario Pubblico. Così che alla salute mentale siano destinate quote significative del Fondo Sanitario e dei fondi del PNRR, dando effettività allo slogan non c’è salute senza salute mentale.  

Questo ci sembra l’unico modo per prevenire i rischi cui sono esposti gli operatori della salute mentale. 

Giovanni Rossi 
Presidente Club Spdc No Restraint

Maggio 1978 – 180 passi indietro. Di Mariasole Ariot

Dal Forum Salute Mentale - Gio, 11/05/2023 - 09:00

di Mariasole Ariot

“tu, se sai dire, dillo, dillo a qualcuno.”
Giuliano Mesa

Esiste una zona d’ombra, nel fondale, un buio di silenzio dissotterrato in anni passati e che ora torna a farsi muto. Se negli anni della riforma basagliana la percezione che i muri venissero abbattuti e che l’abitare la soglia – per usare le parole che Peppe Dell’Acqua ha pronunciato durante l’intervento alla Scuola di Filosofia di Trieste – fosse una direzione possibile, se la percezione era quella di un’apertura dialettica, critica e dialogica che portava anche all’emersione di voci fino a quel punto tappate, oggi i muri sono stati nuovamente eretti, e con un materiale forse anche più denso. La densità dell’ipocrisia, di una patina di chiaro che dice apertura, quando invece, in quella zona d’ombra non detta perché indicibile, il pensiero dominante e le pratiche dominanti, non si sono (solo) fermate: si sono mosse in direzione contraria, girate di spalle e tornate indietro. 

Se il termine “salute mentale” circola di bocca in bocca, dalle dimensioni micro a quelle macro, è pur vero che questo, anche da un punto di vista politico, può torcersi in una vera e propria dispercezione all’occhio di chi, da fuori, vede o ascolta: se se ne parla, è perché ce ne si sta occupando.

La realtà, pur con le sue sfaccettature, è però molto diversa: ce ne si sta occupando veramente? E in che modo?

Non è il significante salute mentale  che dev’essere messo in discussione, piuttosto l’uso che ne fa un certo potere politico e sociale, che, in alcuni casi, a eccezione di zone interstiziali, può utilizzarlo in una ripetizione incessante negli ovunque, per coprire ciò che sta dietro, ciò che non viene visto, ciò che non si vuole vedere, ciò che non può essere mostrato: ciò di cui in realtà, fuori dalle parole, non ci si sta occupando. Forse solo in termini di sottrazione e cancellazione.

I ricordi di Peppe dell’Acqua e di chi ha vissuto gli anni pre basagliani – il “giro medico” di un professore in camice bianco che illustra con dovizia di particolari i segni osservabili dei malati, destoricizzati e desoggettivati, a una processione di studenti, le sbarre alle finestre, le porte chiuse a chiave,  elettroshock e uomini legati ai letti –  per chi non ha visto le strutture psichiatriche di questo presente, possono apparire come immagini legate a un passato remoto, ma per chi né ha fatto esperienza diretta o indiretta, quell’immaginario non suscita stupore (piuttosto angoscia e disperazione): il presente è nuovamente questo e si muove velocemente in direzione di un futuro già presentificato. 

Reparti psichiatrici che, anche da un punto di vista territoriale, vengono separati, o presentati come separati, demarcati da un confine tra un noi ( malati ospedalizzati per altre patologie) e un voi (malati psichiatrici come oggetto scarto). Reparti a volte nascosti nel retro degli ospedali, in altri ancora nei bassifondi, sotto il livello del suolo. 

Corridoi dalle pareti scrostate, le sale fumo impregnate di storie non riconosciute e posaceneri arrugginiti, corpi legati, terapie che, con una sottile manovra che cambia il nome ma non la sostanza, sono tornate in auge (ora terapie elettroconvulsionanti o magnetiche transcraniche, allora  elettroshock), una scansione temporale di un quotidiano che sottrae alla persona  la dimensione del tempo, per trasformarla in un rituale consequenziale di misurazioni e pratiche organizzate, prestabilite, ripetute nel quotidiano: sveglia, colazione, peso, pressione, defecazione, peso, carrello dei farmaci, l’ora  nei corridoi in attesa che le stanze chiuse a chiave – e sbarrate –  vengano arieggiate, non stare per terra ma le panchine non ci sono, gli specchi lastre di alluminio, togliere i lacci o le scarpe, la concessione del proprio telefono solo a brevi orari del giorno, non fotografare, non dire, solo 5 sigarette al giorno, controllare la comunicazione, sequestrare quell’effetto personale che poteva dare sicurezza: un profumo, un crocifisso, un braccialetto, una crema da barba: frammenti di “casa” nelle proprie tasche. 

Corpi misurati e controllati. Il giro medico in forma di commissione (o confessione), e poi ancora, di nuovo: il carrello delle medicine, la cena, l’ora dell’andate a letto

E in quel “giro” non una domanda alla persona, non alla sua storia: cartelle di dati clinici osservabili, sintomi, risposta al farmaco, ha dormito, non ha dormito, aumentiamo il farmaco, diminuiamo, cambiamo. Non una persona al centro, ma un cervello-macchina  malfunzionante da rimettere a posto. Per una diagnosi data in due giorni.
Il resto è un tempo svuotato, di segno e per cognizione: ridotto all’andirivieni dei degenti nei corridoi alla richiesta spasmodica di una moneta per un caffè, l’ennesimo che possa risvegliare dalla sedazione farmacologica. O i giornali: i giornali del giorno prima, o di mesi prima, persino di anni.

Se per Gabriel Tarde*, il senso di straniazione nel ritrovarsi in un caffè e accorgersi di leggere il giornale del giorno prima – disconnesso quindi dall’attorno, dagli altri – è stato un ironico episodio che ha aperto a successive riflessioni, questo rifilare come scarti agli scarti i quotidiani di un quotidiano passato, fa inchinare la testa con un senso di rossore e vergogna.
Quale pensiero del “tanto non se ne accorgono” – o, se se ne accorgono, “così passano il tempo e non si lamentano”.

Piccoli gesti, anche i più minimi, portano il peso di un’asimmetria non solo di potere, ma anche valoriale della persona ridotta ad oggetto.


Se negli spdc la dimensione è questa, esposta nella sua crudescenza, nelle case di cura private o convenzionate, l’esterno è: il verde degli alberi, le belle strutture imbiancate, la pulizia, la postura più gentile del personale, un certo fare paterno o materno, una differenziazione di forma che però non tarda a mostrarsi nella similitudine della sostanza: resta il rumore dei carrelli, la scansione del tempo con colazione, spuntino, cena, orario della buonanotte, i farmaci, la misura, regole di buona condotta, se ne infrangi una, anche fosse un bacio: espulsione, ammonizione.


Degenti per mesi o per anni inseriti in una macchina psichiatrica che osserva sintomi, li incasella, e li trasforma in etichettature. Talvolta non osserva nemmeno: lo sguardo è cieco, si limita a un fotogramma decontestualizzato.

 
I pazienti appena entrati, tanto più se sono reduci da degenze in reparti psichiatrici ospedalieri, portano in sé un senso (breve, e che durerà per poco) di meraviglia e gratitudine: qui è tutto diverso – dicono ai familiari, facciamo un sacco di cose.
Queste cose possono essere gruppi psicoterapici o attività ricreative. Nulla di male, certamente. Il problema si pone nella misura in cui questi vengono strutturati e proposti, e nella maggioranza dei casi, sfortunatamente, restano nella sfera della soluzione/assoluzione: insegnare ai pazienti come sia giusto essere, comportarsi, relazionarsi, a prescindere dalla singolarità di ciascuno, dove sbagliano, cosa sbagliano, e come  il comportamento e il pensiero possa essere corretto da un allenamento addomesticato alla vita. 

Se però non si può negare che in alcuni contesti la figura di uno psicoterapeuta individuale (più raramente di uno psicoanalista), sia prevista e si incarni in una comunicazione con l’altro soggettivato, all’interno di un incontro anche significativo, rispetto alle “attività”, là la zona d’ombra che riduce i soggetti a persone in minore, di serie b, si riapre.

In un passaggio di Asylum, Goffman scrive: 

“Negli ospedali psichiatrici c’è ciò che viene ufficialmente conosciuto come terapia industriale o ergoterapia; i pazienti devono svolgere attività, di solito molto umili, come rastrellare foglie, servire a tavola, lavorare in lavanderia o pulire i pavimenti. Sebbene la natura di questi compiti derivi dalle necessità dell’istituto, la spiegazione abitualmente data al paziente è che queste attività lo aiuteranno a reinserirsi nella società, e che la capacità e la buona volontà che dimostrerà, sarà presa come evidenza diagnostica del suo miglioramento”**

Nonostante Asylum sia stato scritto nel 1961, la realtà delle cliniche psichiatriche non è cambiata. Si aggiungono, alle pratiche nominate da Goffman, altri piccoli “premi”: l’ora di cucito, la plastilina, una morbida ginnastica di movimenti lenti e goffi “su misura per chi non è capace”. Tant’è che, dopo un primo periodo di entusiasmo, queste attività, se non obbligatorie, vengono abbandonate presto : perché anche la persona imbottita di dieci pillole al giorno, se anche non in modo verbalizzato, vive nel proprio corpo una dimensione di indegnità, di penuria, di disagio, talvolta il sospetto (fondato) che siano metodiche “a ribasso”, a misura di incapaci, menomati.

Il richiamo alla terapia industriale o ergoterapica torna poi nei luoghi del fuori, le cooperative per persone con disabilità psichica. Lavorare per committenti, prevalentemente con lavori di assemblaggio, di cucito, manuali. 

Nella maggior parte dei casi nessuna retribuzione: siamo noi che stiamo offrendo a voi qualcosa, la possibilità di occupare il tempo. Ma questo tempo – che è lavoro – non viene ripagato com’è giusto accada per ogni lavoro degno di questo nome. Il risultato è: restare a carico delle famiglie, là dove spesso il disagio è cominciato, con una tendenza alla cronicizzazione. 

Secondo due direttrici, queste modifiche graduali ma sempre più problematiche, da un lato hanno subito una percossa a causa dei gravi taglia alla sanità pubblica (drastica riduzione del  personale nei centri diurni e dei servizi di salute mentale, scomparsa degli spazi pubblici che aprivano le porte non solo a un “reinserimento” del malato verso l’esterno, ma anche a un’entrata dell’altro verso l’interno creando così una zona di soglia, trasformazione dei centri attivi in centri maltrattati da un aiuto economico statale che, per la presa in carico di persone in difficoltà ,riescono a dedicare pochi minuti al mese in cui viene valutato solo l’andamento farmacologico in modo sbrigativo – e il concetto di “cura” viene così a scomparire,  ma anche una deriva, tanto più pericolosa, in un senso propriamente teorico e clinico della psichiatria italiana: si è tornati a una visione dell’altro non come persona sofferente ma come cervello malato, un altro da raddrizzare e correggere (e qui l’immaginario richiama all’opera citata da Foucault, L’orthopédie ou l’art de prévenir e de corriger dans les enfants les difformités du corps di N. Andry), e che se non si raddrizza, se sfugge alle caselle, diventa un altro (se di altro si può parlare) problematico, non gestibile: griglie, misure, manuali diagnostici sono rassicuranti. La storia del soggetto non lo è: allora la cancellazione, l’ammutinazione di ogni segno al singolare, sintomi declinati a fotogrammi che diagnosticano nell’immediato senza contestualizzazione all’interno di un tragitto esistenziale al singolare.

E’ sicuramente più facile rapportarsi con un paziente iperfarmacologizzato e arreso alla terapia che non a un paziente che dà voce alla sua voce. Diventa ingombrante, un peso. E la voce si spegne, la bocca si cuce.

Ma esiste anche una posizione opposta, ostinatamente contraria a questa, che può però, pur con nobili intenti, esercitare un’altra riduzione e semplificazione: quella del “ in fondo siamo tutti folli”. 

No, non siamo tutti folli: abitare la soglia e comprendere il dolore e la sofferenza psichica dell’altro malato deve comunque essere riconosciuta in quanto tale, significa non ridurre il soggetto alla malattia e riconoscerlo in quanto essere al singolare, ma rispettarne e ammetterne la condizione drammatica in cui vive, la qualità oggi sempre più penosa della sua vita, le difficoltà di essere ascoltato anche nel suo silenzio. 

*Gabriel Tarde, 1843-1904, sociologo, criminologo e filosofo francese.
**Asylum,Goffman, 1961

Tragedie annunciate. Di Enrico Di Croce

Dal Forum Salute Mentale - Mer, 10/05/2023 - 21:45

di Enrico di Croce
3 maggio 2023

Tempo fa ho seguito su YouTube la lezione di un celebre filosofo il quale, citando Aristotele, spiegava che gli obiettivi qualificano le azioni. Un concetto apparentemente banale, ma che ho trovato molto prezioso per chiarirmi le idee su uno dei temi più controversi del mio lavoro di psichiatra: il rapporto tra cura e controllo della pericolosità. Argomento di grande interesse pratico, che ha assunto un’enorme risonanza emotiva dopo il brutale assassinio della collega Barbara Capovani.

L’autore di quella lezione (Emanuele Severino) per spiegarsi faceva l’esempio della differenza che passa fra un medico che lavora con l’obiettivo di guadagnare denaro e un medico che lavora per curare i pazienti e, come conseguenza delle sue azioni, guadagna denaro. Anche se le azioni, all’apparenza, sono le medesime, in realtà sono completamente diverse. 

Allo stesso modo è molto diverso se uno psichiatra agisce con l’obiettivo di prevenire atti violenti, oppure con l’obiettivo di curare, sapendo che, come conseguenza della cura, potrebbe ridursi la probabilità che si compiano atti violenti. 

A me sembra che l’annoso dibattito sulla psichiatria, rinfocolato dal recente, orribile episodio di cronaca, ruoti soprattutto intorno a questo punto. Era appena stata approvata la legge 180, quasi mezzo secolo fa, e già si udivano le voci di psichiatri scandalizzati perché la riforma aveva inteso “negare per motivi ideologici la violenza criminale nella malattia mentale” (come strillava un direttore di Dsm, ancora il 1° maggio scorso, su un grande quotidiano nazionale). 

Ebbene credo si tratti di un colossale fraintendimento, per essere benevoli. Il punto non è mai stato negare la possibilità della violenza dei pazienti. Ciò che il movimento di riforma ha cercato di rivendicare è il capovolgimento degli obiettivi: affermare il primato del mandato di cura su quello di controllo, partendo dall’esperienza dei manicomi la quale ha dimostrato che, mettendo al primo posto la prevenzione della pericolosità, si rende sostanzialmente impossibile ogni azione terapeutica, inchiodando psichiatri e infermieri al ruolo di controllori-carcerieri. 

A distanza di tanto tempo mi pare che la questione si riproponga più o meno negli stessi termini. Nel corso degli ultimi due decenni è tornata prepotente la richiesta alla psichiatria di assumere in toto la delega al controllo della pericolosità dei “folli”, affermandola come il primo dei suoi obiettivi istituzionali.

La psichiatria italiana ha risposto con ambivalenza, mugugnando, provando a fare dei distinguo, ma in sostanza ha accettato quella delega, sostenuta da pressioni sociali molto forti. Credo lo dimostrino numerosi segnali indiretti, come l’inarrestabile successo dei vari corsi di specializzazione in psichiatria-forense, criminologia, “criminal profiling” e simili, il fiorire delle “Unità forensi” in tutti i Dipartimenti di Salute Mentale, spesso trampolino per brillanti carriere. Senza contare che gli psichiatri “esperti” in crimini sono gli unici a godere di una narrazione pubblica positiva, nelle fiction più popolari e sui grandi media che li interpellano regolarmente, quindi gli unici a mantenere un minimo di credito sociale.

Da anni queste dinamiche si sono concretizzate in alcune sentenze della Magistratura che pesano come macigni: a partire da quella tristemente nota che nel 2007 ha condannato uno psichiatra per omicidio colposo a seguito dell’omicidio compiuto da un suo paziente. Con ogni evidenza il principio affermato dalla sentenza è che pericolosità e patologia psichiatrica non sono fenomeni distinti; che la posizione di garanzia dello psichiatra, il suo dovere istituzionale e giuridico, non consiste solo nell’aiutare il paziente a stare meglio ma, soprattutto, nell’impedire che faccia del male agli altri o a sè stesso, essendo la propensione alla violenza indistinguibile della sua patologia.

Il presupposto culturale e giuridico decisivo è il concetto di non imputabilità, il vero peccato originale della psichiatria, che nessuna riforma è mai riuscita a scalfire. Al paziente dichiarato incapace di intendere e volere, quindi non responsabile delle sue azioni, corrisponde lo psichiatra-controllore, che assume di fatto la responsabilità delle azioni del paziente.  

Viene in questo modo rimossa la lezione più importante del manicomio: dare priorità al controllo della pericolosità distrugge ogni possibilità di relazione d’aiuto e aumenta, non riduce, il rischio di violenza. Ci sono moltissimi esempi che lo dimostrano. Quando i servizi psichiatrici sono forzati a compiere scelte diverse da quelle che compirebbero se fossero spinti da sole motivazioni orientate alla funzione di cura, rischiano di perdere ogni credibilità come figure terapeutiche e diventano facili capri espiatori. Agire da braccio armato della legge impedisce, spesso in modo irreversibile, di assumere il ruolo terzo di intermediari fra le logiche della follia e quelle della realtà, in cui risiede la sostanza della funzione di cura. 

Le situazioni in cui si creano pressioni esterne (della Magistratura, delle Forze dell’ordine, degli Enti locali) a intervenire per evitare una “tragedia annunciata”, e non per aiutare una persona che ha disperatamente bisogno, sono quelle in cui la tragedia ha la massima probabilità di verificarsi.

E ritornammo a riveder le stelle. Una città che accoglie e cura.

Dal Forum Salute Mentale - Lun, 08/05/2023 - 18:22

BergamoBrescia capitale della cultura 2023

In occasione del cinquantesimo compleanno Marco Cavallo e del quarantacinquesimo compleanno delle legge 180 il gruppo “10 ottobre” – Associazione Marco Cavallo Forum Salute Mentale Brescia, Associazione Alleanza per la Salute Mentale, Teatro Dioniso, Movimento per la Decrescita Felice, Cooperativa Il Calabrone – ha raccolto le parole con cui il sindaco di Brescia ha aperto l’anno di Bergamo Brescia Capitale della Cultura:

“ …..Brescia, città che accoglie e che cura…..”.

E’ nata la “cinque giorni di Brescia” intorno al tema della Salute Mentale. Marco Cavallo sarà ospite per cinque giorni dell’ex Palazzo di Giustizia, nel centro della città. Sarà accolto al Parco Basaglia e renderà omaggio ai Caduti di piazza Loggia. Insieme a lui faremo teatro, presenteremo libri, suoneremo musica e vi offriremo degli ottimi aperitivi… tutto gratuito. Insomma un po’ di vita insieme, per scambiarsi memorie, pensieri, progetti e per ricordarci che la vita di ogni persona è unica, irripetibile e preziosa. 

Siete tutte e tutti invitati! In particolare sarebbe molto bello ritrovarci il 13 pomeriggio in tante e tanti a sottolineare che i Manicomi non riapriranno più.

Attenzione: nel programma ufficiale mancano alcuni eventi che si sono aggiunti più tardi:

  • sabato saranno presenti gli “Ottoni a Scoppio” con la loro musica;
  • domenica mattina il violinista Massimo Paioli accompagnerà Samah Jabr;
  • alcuni laureandi della scuola di regia “Luchino Visconti” di Milano riprenderanno tutte le giornate per farne una tesi di laurea. 

Maggiori informazioni qui o sulla pagina FB “ Marcocavallo Forum Salute Mentale”.

Scarica il programma.

Applicate la legge Basaglia, altro che riaprire i manicomi. Le parole di Gisella Trincas. Di Veronica Rossi.

Dal Forum Salute Mentale - Ven, 05/05/2023 - 19:00

da “Vita”

L’Unione nazionale delle associazioni per la salute mentale-Unasam, esprimendo solidarietà ai familiari e ai colleghi della specialista uccisa a Pisa, si chiede cosa ci sia che non funzioni, oggi, nei servizi di cura: serve una presa in carico globale, che coinvolga anche il tessuto sociale e la comunità. Vale a dire applicare pienamente la legge 180 e formare adeguatamente ad essa gli operatori

«Come abbiamo più volte dichiarato, riteniamo che il parallelismo tra disturbo mentale e pericolosità vada assolutamente rigettato». A parlare è Gisella Trincas, presidente dell’Unione nazionale delle associazioni per la salute mentale – Unasam. La rete, a cui oggi aderiscono 70 realtà su tutto il territorio nazionale, ha inviato una lettera aperta a Simona Elmi, dirigente delegata dell’Unità funzionale della salute mentale adulti di Pisa – mandata per conoscenza anche all’assessore per la Sanità della Regione e al ministro della Salute – in cui esprimeva vicinanza alla famiglia della psichiatra rimasta uccisa a Pisa e metteva in luce la necessità di veri percorsi di recupero e di riabilitazione, denunciando la situazione di grave depauperamento che vive il settore negli ultimi anni.

«Il nostro Paese ha un problema di violenza abbastanza diffuso, a partire dai luoghi di vita quotidiana, verso le donne, i bambini, i più fragili», afferma la presidente. «Chiaramente qui ci troviamo di fronte a una persona con importanti disturbi mentali, che si sono innestati su una personalità di un certo tipo: non tutti sono uguali, io ho incontrato personalmente Gianluca Paul Seung e per me era chiarissimo che aveva delle serie difficoltà. La domanda che mi sorge, però, è cosa sia stato fatto per questo ragazzo, al di là dei ricoveri e dei farmaci». Per le associazioni, non si può pensare di affrontare una sofferenza di questo tipo solo con le pillole: servirebbero interventi riabilitativi intensivi, che permettano il recupero psicosociale della persona. La mancanza di questi percorsi in gran parte dei Dipartimenti di salute mentale – Dsm italiani è un grosso problema, fin dall’approvazione della Legge associata al nome di Franco Basaglia; un’altra importante criticità è la carenza di prevenzione. «La salvaguardia della salute mentale si fa attraverso interventi politici, economici e sociali che riguardano tutti i cittadini», continua Trincas, «come il sostegno alla fragilità, il diritto al lavoro e alla casa». Anche le regioni che storicamente hanno sempre avuto dei servizi all’avanguardia – Friuli Venezia Giulia, Emilia-Romagna e Toscana, per esempio – in questo momento storico sono in difficoltà. «A Trieste, fiore all’occhiello della salute mentale italiana ed europea, è in atto un attacco frontale», dice la presidente di Unasam, senza usare mezzi termini.

«Le scelte politiche da decenni non sono orientate verso una vera attuazione della Legge 180 e gli operatori non sono formati rispetto alla norma. Io vivo la situazione della salute mentale dagli anni ‘70, con un fratello e una sorella con un disagio psichico; ho attraversato la storia di questo settore sin dall’ospedale psichiatrico. In questi 50 anni ci sono stati dei governi che hanno accolto alcune nostre istanze, forse perché avevano già determinate sensibilità, altri arrivati dopo demolivano quanto fatto prima. Nel corso del tempo ho visto tanti tentativi di mettere in discussione la riforma». Lo stigma, negli ultimi anni, è notevolmente aumentato, di pari passo alla diminuzione dei servizi e al loro progressivo definanziamento. «C’è stato un grande indebolimento anche a causa di quanto successo nella pandemia, quando le persone non avevano accesso ai servizi oppure non potevano vedere i loro familiari», commenta Trincas. «Oggi ci ritroviamo senza avere sul campo operatori disponibili; serve un’equipe multidisciplinare, che comprenda anche psicologi, educatori e assistenti sociali, che lavorino insieme sul territorio, coinvolgendo anche le associazioni di volontariato e la comunità. Ora, però, il personale è in grave sofferenza: a Siniscola (provincia di Nuoro, ndr), per esempio, c’è una psichiatra sola con 2.500 assistiti. In questo modo, però, non è possibile fare null’altro che intervenire sull’emergenza». Il problema, quindi, è legato anche alla disattenzione rispetto all’attuazione della Legge 180 e alla mancanza di risorse umane e materiali dei Dsm. Eppure, ora più che mai, c’è chi inneggia al ritorno dei manicomi. «I media hanno la loro parte di responsabilità, non solo per quanto riguarda questo episodio», conclude la presidente di Unasam. «Si punta sempre sul sensazionalismo, sul creare nell’opinione pubblica un senso di opposizione e di ribellione, è questo il motivo per cui vengono fuori i commenti agghiaccianti che sentiamo negli ultimi giorni, come “Rinchiudeteli tutti” o “Riaprite i manicomi”. C’è chi dice che la sinistra avrebbe sbagliato ad approvare la 180, ma questo denota una profonda ignoranza: la Legge è stata adottata nel 1978 da un governo democristiano e sostenuta da una grande ministra della Salute di questo schieramento, Tina Anselmi».

https://www.vita.it/it/article/2023/04/27/applicate-la-legge-basaglia-altro-che-riaprire-i-manicomi/166535/

Il dramma di Pisa denuncia la miseria delle psichiatrie. Di Marco Rovelli

Dal Forum Salute Mentale - Lun, 01/05/2023 - 16:46

Il dramma di Pisa denuncia la miseria delle psichiatrie 
di Marco Rovelli*

La morte della psichiatra dell’ospedale di Pisa Barbara Capovani ad opera di una persona affetta da un disturbo mentale che era stata in cura presso l’Spdc che lei dirigeva ha scosso profondamente tutto il settore della salute mentale. Ma la dottoressa era stata appena aggredita che sul suo corpo già si precipitava una speculazione ideologica. La responsabilità è dell’antipsichiatria, scriveva Mario Di Fiorino, direttore del DSM della Versilia a cui Seung faceva capo, pubblicando sue fotografie insieme a psichiatri democratici (e non certo antipsichiatri) come Peppe Dell’Acqua – storico collaboratore di Basaglia, nonché direttore del DSM di Trieste per 17 anni, e Vito D’Anza, facendoli apparire come i mandanti; laddove, invece, Seung era intervenuto a convegni aperti a tutti, associazioni di familiari e di utenti dei servizi psichiatrici. Qualche ora dopo, il deputato leghista pisano Ziello invocava la riapertura dei manicomi – come, peraltro, prevede una proposta di legge presentata dalla stessa Lega nella scorsa legislatura, con la consulenza dallo stesso Di Fiorino (adesso candidato con Fratelli d’Italia per le elezioni comunali di Pietrasanta). Più genericamente, ma nello stesso senso, i deputati della Lega dicono che “bisogna aprire una riflessione sulla legge Basaglia”, e che il paese ha bisogno di “una nuova norma”.

Poi c’è chi chiede più posti nelle Rems, ovvero le strutture che hanno sostituito gli Ospedali Psichiatrici Giudiziari dopo la loro chiusura. Ma è davvero questa la questione? O forse questa vicenda ci induce a riflettere sul modello organizzativo e culturale della psichiatria oggi in Italia? Non pone al centro, semmai, la necessità del cambiamento di paradigma, da una psichiatria biomedico-buroratica a una psichiatria territoriale? Ne ho parlato con Peppe Dell’Acqua.

“Le richieste allarmate di sicurezze e posti letto in realtà coprono un fallimento, quello della rete dei servizi di salute mentale a livello territoriale. Parlare adesso solo di pericolosità sociale e sicurezza non fa che peggiorare la situazione. Più procede l’impoverimento culturale, organizzativo e di risorse dei Servizi di salute mentale, degli operatori, delle accademie, questi rischi diverranno sempre maggiori. E’ stupido pensare che le Rems possano impedire questi eventi. Non sono uno strumento di prevenzione, arrivano a valle. Prima, ci devono essere prevenzione e cura: ci vogliono servizi che si prendano carico di una persona che soffre di un disturbo mentale, che la seguano sul territorio, che non la lascino a se stessa; e invece troppo spesso a queste persone ci sono solo farmaci long acting una volta al mese e residenzialità nei centri. Bisogna rovesciare il paradigma, ponendo come pietra angolare dei servizi il Centro di Salute Mentale, investire risorse. Ma da questo punto di vista la regionalizzazione è stata un disastro, non abbiamo nemmeno gli strumenti per confrontare quel che accade nelle diverse regioni. E gli Spdc sono diventati l’unico baluardo, un fortilizio, luoghi distantissimi dal territorio e dalle cure: provo moltissima solidarietà coi medici che ci lavorano, perché sono il luogo dove si delega tutto quello che dovrebbe essere diffuso sul territorio, e loro sono come i nostri soldati della grande guerra gettati in trincee fredde e fangose con vecchi fucili e scarpe di cartone. Per tenere lontano la follia e proteggere la nostra normalità.”

Invece di cominciare a riflettere su queste questioni strutturali, si imputa alla “legge Basaglia” la responsabilità per non garantire la sicurezza sugli operatori. Ma, anche in questo caso, le cose stanno ben diversamente.

“Una volta constatata la pericolosità sociale di un soggetto, si deve agire. In questo caso ad agire doveva essere il Dsm della Versilia, che ha un suo responsabile, psichiatri, psicologi e una rete di servizi sociali. Dopodiché, se e quando le magistrature ricevono una perizia che dichiara la pericolosità sociale, agire tocca a loro, predisponendo una misura di sicurezza in una Rems, o anche ordinando la permanenza in carcere, dove devono esserci i ssm che se ne prendano cura. Ma se non c’è una rete che lavora insieme, quel che resta è un rimpallo di responsabilità.

Detto questo, non siamo certo onnipotenti, e la scintilla impazzita potrà esserci sempre e comunque. Purtroppo, in cinquant’anni di lavoro ho dovuto più di una volta piangere dei colleghi, prima e dopo la chiusura dei manicomi, prima e dopo la chiusura degli Opg.”

Tra le varie menzogne ideologiche di chi specula sulla tragedia di Pisa, c’è anche quella che gli psichiatri “democratici” sono dei buonisti, e vogliono proteggere “il matto” a tutti i costi, e privarlo della responsabilità giuridica di fronte a reati commessi. Ma, anche in questo caso, non è affatto così.

“Nel nostro sistema  persiste la teoria del doppio binario: da una parte la malattia, dall’altra il delitto. Nel momento in cui una persona affetta da disturbo mentale commette un reato scompare il principio della responsabilità soggettiva. Non è più un soggetto a aver commesso il reato, ma una figura impalpabile, la malattia mentale. Per molti giuristi e costituzionalisti, e noi lo diciamo da cinquant’anni, dovremmo abbandonare la perizia psichiatrica, eredità del positivismo ottocentesco, e un atto che non ha nulla di scientifico: non è uno strumento di garanzia e protezione, ma una forma di pietà che non ha nulla di scientifico. Bisogna affermare che ogni persona è responsabile di ciò che fa. Il che significa, in questo caso, che il giudice condannerà Seung, se è riconosciuto colpevole andrà in carcere e se necessario nel corso dell’esecuzione della pena si ricorrerà come per tutti gli altri detenuti a percorsi di cura e di riabilitazione.  La condanna è il passaggio che va fatto, come il riconoscimento della colpa e della responsabilità. Per la stessa persona responsabile di un reato, sapere che quel che ha commesso è un crimine rende tutto meno ambiguo. Quel che succede è che la giustizia abdica, i giudici consegnano la questione allo psichiatra in una sostanziale delega ai servizi psichiatrici da parte del sistema giudiziario e delle forze dell’ordine”.



*autore di Soffro dunque siamo. Il disagio psichico nella società degli individui.

“Difendo la legge Basaglia” Eugenio Borgna intervistato da Marcello Giordani.

Dal Forum Salute Mentale - Dom, 30/04/2023 - 16:18

Eugenio Borgna: “Quella morte imprevedibile, io difendo la legge Basaglia”
di Marcello Giordani
da La Stampa del 27 aprile 2023

Il professore pioniere a Novara della moderna psichiatria e il caso dell’omicidio della dottoressa da parte di un suo paziente

Borgna fu tra i primi in Italia ad applicare principi e spirito della legge Basaglia 

L’omicidio della psichiatra Barbara Capovani da parte di un ex paziente non può mandare in soffitta la legge che ha chiuso i manicomi e cambiato radicalmente il rapporto tra «normalità» e «follia». Ne è convinto il professor Eugenio Borgna che fu uno dei primi in Italia ad applicare, nell’ospedale psichiatrico femminile di Novara, i principi e lo spirito della legge Basaglia che richiedeva nei confronti dei pazienti psichiatrici un trattamento umano e non più un rapporto basato sullo schema secondino-detenuto.

Professor Borgna, la morte della dottoressa Capovani non mette in crisi anche la stessa psichiatria?

«Certamente, questa vicenda terribile ci colma di angoscia ma ci dice anche dei limiti della psichiatria così come di ogni altra disciplina. Limiti di cui dobbiamo essere consapevoli».

In questi casi non è possibile prevenire o in qualche modo comprendere in anticipo le intenzioni del malato?

«No, quando i sintomi psicotici esplodono in modo così improvviso e conducono a tragedie come questa. La violenza può esplodere in modo talmente rapido e imprevedibile che qualsiasi interpretazione dei sintomi, posto che si avvertano, non consente di impedire l’esplosione».

Significa che non si può far nulla o ci sono margini?

«I farmaci che oggi sono a disposizione hanno una grandissima efficienza; è fondamentale intervenire quando ai sintomi psicotici si accompagnano gesti di violenza che possono poi sfociare nei drammi di cui stiamo parlando. Va ricordato che c’è un limite alla nostra capacità di sondare il mistero della follia, mondo complesso che in parte sfugge a un approccio solo razionale; in ogni caso resta sempre una parte che non riusciamo a decifrare, e magari da lì si può scatenare ciò che porta al dramma».

Cosa ha pensato quando ha saputo di questa tragedia?

«Il mio pensiero è corso a una bravissima collega che si è messa al servizio della fragilità, per accompagnarla, aiutarla, alleviarne le sofferenze. Ho provato un enorme dolore per questa dottoressa straordinaria che ha dato la vita per aiutare gli altri».

Adesso però c’è chi invoca una modifica radicale o la cancellazione della legge Basaglia: se quel paziente fosse stato chiuso in un ospedale psichiatrico non sarebbe accaduto. E’ così?

«Assolutamente no. Questa è una reazione di tipo puramente emotivo, contraria a una riflessione rigorosa. L’apertura dei manicomi ha semmai diminuito i comportamenti violenti, ha permesso il recupero umano e sociale di tantissime persone. Riaprire i manicomi è come riaprire le carceri: purtroppo si guarda a quella struttura come fosse la soluzione dei problemi, ma non è così; eventi violenti accadevano anche nei manicomi più sorvegliati. Oggi per affrontare i casi più gravi ci sono le Rems, le residenze per l’esecuzione delle misure di sicurezza. Sono strutture sanitarie per accogliere autori di reato, ritenuti infermi o seminfermi di mente e socialmente pericolosi; differenza fondamentale coi manicomi è che qui c’è un percorso di riabilitazione delle persone».

Nella sua esperienza nell’ospedale psichiatrico di Novara si è mai trovato a gestire pazienti violenti e quindi pericolosi anche per gli operatori sanitari?

«Novara era una struttura femminile ed è accertato che i gesti di violenza in questo settore sono fondamentalmente maschili. Non mi sono mai accadute situazioni di questo genere, anzi, ho trovato tantissima umanità nelle pazienti».

Un altro punto di vista. Lettera dell’Associazione Familiari

Dal Forum Salute Mentale - Sab, 29/04/2023 - 19:43

Aggressioni ai sanitari: un altro punto di vista

Come Associazione Familiari Sofferenti Psichici Noi Insieme, vogliamo proporre un’altra lettura a proposito delle recenti deplorevoli e preoccupanti aggressioni ai sanitari ai quali va tutta la nostra solidale vicinanza.

Sentiamo profondamente il dovere di sostenere tutti gli operatori della sanità pubblica sia per le aggressioni che per gli alti carichi di lavoro ai quali sono sottoposti oggi, a seguito di pensionamenti o dimissioni senza reintegro che generano inevitabilmente logoramento, stanchezza, disaffezione. Li comprendiamo e li ringraziamo. 

Tuttavia evidenziamo ancora una volta quanto i nostri figli o congiunti difficili, fragili, ipersensibili e frangibili abbiano la necessità di interventi circostanziati, complessi e continuativi, integrati tra medicina e socialità. Se svolto con la dovuta cura tutto ciò comporta dedizione, tempo, costanza, attenzione. E tutto ciò OGGI non può essere svolto da servizi mortificati nei loro organici, svuotati di personale pericolosamente ridotto al minimo. IERI, in altre condizioni, le aggressioni non accadevano con questa frequenza da stillicidio allarmante alle quali oggi assistiamo. Ci sarà un perché?

Il trattamento subìto dal CSM di via Gambini ne è l’esempio più evidente e, a nostro avviso, scandaloso. Non più servizi psichiatrici sulle 24 ore, non più personale qualificato per le visite domiciliari, non più operatori che possano dedicarsi e prendersi carico della persona nella sua globalità e non solo come ammalato quale assuntore di farmaci.

OGGI i Centri di salute mentale sono ridotti a meri distributori di medicinali, spogliati dalle buone pratiche che hanno fatto si che il sistema  Trieste sia all’avanguardia mondiale e sia tutt’ora il riferimento per la Salute Mentale dall’ OMS.

Come Associazione dei familiari abbiamo segnalato già nell’agosto 2022 al direttore Generale di ASUGI le gravi criticità dei Centri di Salute Mentale in particolare di Gambini e l’evidente impossibilità di rispondere adeguatamente alle problematiche complesse che i nostri figli e parenti pongono. Il 30 marzo abbiamo inviato un nuovo  sollecito al Dott. Poggiana invitandolo ad attuare le azioni promesse atte ad  rintegrare l’organico dei CSM e al ripristino di Gambini sulle 24 ore e premunendolo proprio delle gravi conseguenze che andavano a crearsi e che ora sono evidenti a tutti.  Difatti in questi ultimi mesi il ricorso al TSO è aumentato notevolmente, come mai?  Trieste in anni precedenti vantava  una percentuale tra le più basse in Italia .

La constatiamo la rarefazione del numero di incontri tra paziente e medico.

La vediamo la quasi totale sparizione delle attività socializzanti necessarie per ogni progetto di cura e recupero.

E’ sotto i nostri occhi la quasi impossibilità per gli operatori dell’essenziale lavoro d’équipe, che garantisce  le pratiche di cura.

Chi deve programmare la sanità – anche quella mentale – non sapeva che la pandemia da covid sarebbe stata elemento aggravante della situazione della salute mentale dei sofferenti e della popolazione in genere?

Da anni leggiamo dell’accrescere del disagio sociale e dell’aumento dei casi psichiatrici sia in età evolutiva che adulta. Da quale organismo pubblico e come viene governato questo fenomeno? Si progetta? Qual è la visione strategica per il mondo della salute mentale?

E’ del tutto evidente come non ci sia un vero progetto, un’autentica programmata gestione del fenomeno del disagio mentale. E pensare che, pur con limiti e difetti, eravamo stati esemplari in Italia e nel mondo con il “Modello Trieste”! 

Con l’attuale stato dei CSM, era ed è assolutamente prevedibile quello che sta accadendo.

Dunque è nostra ferma convinzione che i nostri familiari trascurati, alcuni decisamente abbandonati, altri appena sufficientemente sostenuti, comunque tutti sofferenti, sono, insieme ed accanto ai sanitari anche loro le vittime di questa situazione!

Fermiamo le aggressioni ai sanitari, non con telecamere, vigilantes o l’intervento della polizia  come prospettato da qualcuno, crediamo poco utili a cose già avvenute, ma con il doveroso esercizio del diritto alla cura disciplinato dai Livelli essenziali di assistenza e dal regolamento dei Centri Salute Mentale di ASUGI.

Le escandescenze, la rabbia delle persone in cura possono e devono essere gestite meglio, ripristinando l’organico nei vari servizi con personale qualificato, istruito  a gestire le crisi e capace di interloquire, relazionarsi  con le persone sofferenti e vedremo che anche le aggressioni al personale sanitario si ridurranno notevolmente.

Trieste, 20 aprile 2023
Per il direttivo dell’Associazione A.Fa.So.P. NoiInsieme OdV
Claudio Cossi

Il tragico destino di una brava psichiatra. Di Roberto Mezzina

Dal Forum Salute Mentale - Sab, 29/04/2023 - 19:41

Da “Il Piccolo”

di Roberto Mezzina

Il tragico destino di una brava psichiatra, il suo omicidio forse premeditato, oltre al dolore, all’orrore e allo sdegno che ha suscitato, non possono e non devono diventare l’ennesimo pretesto per mettere in discussione ciò che il nostro paese ha ottenuto dopo una legge epocale, la legge 180. Chiamarla ‘legge Basaglia’ non rende merito allo sforzo collettivo di tanti altri che contribuirono a scriverla e delle tante esperienze che la resero credibile e possibile, e all’unità delle forze politiche che la vollero, non senza resistenze e reazioni.  Va qui ricordato che per vent’anni si sono avvicendati mancanza di finanziamenti, assenza di servizi alternativi, tentativi e proposte di ritorno indietro, fino all’atto irreversibile della chiusura finale di tutti i manicomi alla fine del secolo precedente grazie al ministro Bindi. Solo allora finalmente l’Italia ha investito qualcosa in più sulla salute mentale, ma per pochi anni: subito dopo, con la crisi del 2011, è iniziato il definanziamento che ci ha portato al livello più basso nei paesi OCSE (2,75% del fondo sanitario nazionale). Nella seconda decade del nostro secolo, anche la questione degli ospedali psichiatrici giudiziari (gli ex-manicomi criminali) è finalmente arrivata all’attenzione del Presidente della Repubblica Napolitano, grazie alla Commissione Parlamentare Marino. La quale, detto per inciso, aveva girato tutta l’Italia identificando le necessità di potenziamento in Centri di Salute Mentale aperti 24 ore come in Friuli Venezia Giulia, dotati di risorse e percorsi individuali riabilitativi, lavorativi e abitativi, contrastando così la crescente cattiva pratica del legare nei servizi ospedalieri e l’abbandono degli utenti e delle loro famiglie. La costruzione delle residenze per l’esecuzione delle misure di sicurezza, le cosiddette Rems, invece lasciò indietro tutto questo; certo permise la chiusura degli OPG, ma senza che il vetusto pilastro del Codice Penale che li reggeva, la non imputabilità per infermità mentale, fosse rivisto e abrogato. La ‘sanzione’, il limite al comportamento individuale, come per ogni cittadino, non deve essere attuata dalla psichiatria, ma dalla legge.
A livello mondiale, l’OMS reclama il rispetto dei diritti umani dei pazienti riconoscendone anche i doveri di fronte alla legge. Ma l’Italia nulla ha fatto se non vaghi propositi governativi di abolire la contenzione, senza un piano di formazione e di potenziamento dei servizi del territorio. Con il palleggiamento e la confusione di ruoli tra giustizia e psichiatria cui si assiste oggi, anche in questa regione: persone piantonate nei Servizi Psichiatrici Ospedalieri messi sotto pressione, Centri di Salute Mentale infragiliti, richiesta di ulteriori Rems, mentre non si comprende come le stesse Rems previste non siano state completate come a Udine, passando da 6 a 10 posti letto regionali.  Una proposta di legge nazionale ha chiesto nella passata legislatura l’abolizione degli art 88 e 89 del Codice Penale che regola la non imputabilità, non confondendo la questione della pena con quella della cura. Le persone con disturbo mentale devono essere giudicate e se è il caso andare in carcere, o avere pene alternative, ma vanno seguite all’interno dei luoghi di pena da servizi di salute mentale, gestiti dai dipartimenti pubblici, che assicurano la necessaria continuità di cura e la prevenzione di ulteriori reati. 
Al tempo stesso, la drammatica carenza di risorse umane adeguatamente formate va affrontata. Un’altra proposta di legge, depositata in ben due legislature ma mai arrivata al dibattito parlamentare, chiede di realizzare ciò che la Commissione Parlamentare aveva chiesto, applicando ‘veramente’ la riforma. Ciò che invece si profila è l’aumento dei posti in Rems magari privatizzate, e nei servizi ospedalieri. Il che significa non affrontare il problema alla radice, ma solo aumentare le misure restrittive che peggiorano i rapporti tra utenti e servizi, trasformando gli operatori in carcerieri e oppressori anziché permettere loro di curare nel rispetto dei diritti e delle libertà fondamentali delle persone. Non abolire la 180, ma realizzarla compiutamente, ecco la direzione giusta da imboccare.

* psichiatra, già direttore del Dipartimento di Salute Mentale di Trieste, Vicepresidente della Federazione Mondiale della Salute Mentale

Dopo l’omicidio della psichiatra Barbara Capovani. Di Pietro Pellegrini

Dal Forum Salute Mentale - Sab, 29/04/2023 - 19:34

di Pietro Pellegrini*

Trascorsi alcuni giorni dall’omicidio della psichiatra Barbara Capovani dopo lo sconcerto, il dolore e le tante prese di posizione si stanno delineando le possibili linee di intervento onde evitare che tutto finisca con il restare invariato. Per punti.

a) Le indagini chiariranno la dinamica dei fatti accaduti in pieno giorno, all’interno di un grande ospedale. Un omicidio commesso a quanto pare da una persona conosciuta, ripetutamente segnalata e oggetto di diversi interventi giudiziari e sanitari. Le questioni della “security” e della “safety” verranno certamente analizzate. E’ un gravissimo incidente sul lavoro, connesso all’attività medica e certamente non mancano Circolari e documenti per la sicurezza delle cure e degli ambienti di lavoro che vanno dal reparto ospedaliero fino alla casa della persona, passando per Case della Comunità, ambulatori, Centri di Salute mentale, Residenze, Centri diurni.

Un tema rilevante che dovrebbe essere oggetto di un lavoro congiunto delle Aziende Sanitarie, Dipartimenti di Salute Mentale, Forze dell’Ordine coinvolgendo Sindaci, cittadini, associazioni, comunità. La sicurezza come prodotto di un lavoro comune, dove diritti/doveri sono l’esito di una tutela e di un reciproco rispetto delle persone e del bene pubblico. Un rilancio del “patto sociale”, di una coesione che rischia di essere lesa da fenomeni di frammentazione, violenza e anomia. 

Il 28 aprile è la giornata mondiale per la sicurezza sul lavoro. E’ necessario vedere lo specifico della sanità e della psichiatria e agire di conseguenza sui diversi piani: sedi, attrezzature, personale, formazione di operatori e cittadini. Molto è stato fatto molto resta da fare. Non vi sono scorciatoie, nessun intervento può essere considerato risolutivo (né la descalation, né l’addestramento del personale alla difesa personale…) ma la sicurezza va pensata e il rischio valutato e prevenuto. Non vi è un modello organizzativo in grado di azzerarlo. 

Il problema della violenza a danno dei medici è presente anche a livello internazionale e purtroppo non è nuovo. Lorettu (2015)° rileva che nel periodo 1998-2013 (quindi prima della chiusura degli OPG) vi sono stati 18 omicidi di medici, di cui 6 psichiatri, 4 MMG e 3 di guardia medica, 2 urologi. Gli autori sono risultati essere affetti da disturbi mentali in 7 casi (38,8%). Un dato che dovrebbe portare a riflettere sulla violenza della “normalità” (“normotica”) meno percepita di quanto sia quella delle persone con disturbi mentali. 

A maggior ragione quando le minacce, gli agiti e i reati sono numerosi e protratti negli anni da parte di soggetti di solito imputabili. L’insufficiente protezione e la carenze di strategie si evidenziano anche nella prevenzione dei femminicidi, dello stalking, delle violenze intrafamiliari e relazionali nonostante leggi specifiche (c.d. Codice Rosso 69/2019).  

La quota di violenze che matura negli ambiti domestici e riverbera sui servizi è in netta crescita. Quindi si tratta di una problematica che arriva/viene indirizzata/affidata ai servizi sanitari ben prima della definizione dell’imputabilità, già nella fase delle indagini. Il disagio sociale e familiare, anche quando esita in reati, deve vedere compresenti un insieme di interventi educativi, sociali e sanitari. La patologizzazione del disagio comporta un carico improprio dei servizi sanitari e soprattutto indirizza su una linea deviata l’insieme dei problemi, ritardandone così la soluzione.

b) La gestione dell’ordine pubblico e della convivenza sociale. Nonostante l’Italia abbia visto una netta diminuzione degli omicidi, passati dai 1916 del 1991 ai 318 del 2022, è aumentata la percezione di insicurezza. Questo riguarda in primis gli stranieri, tossicodipendenti ma può riguardare anche le persone con disturbi mentali con conseguenze negative e talora tragiche. Proprio due giorni fa a Vicenza una persona scalza, con una tunica e manifestazioni clamorose, inneggiante ad Allah è stato fermato da due carabinieri e dopo averne disarmato uno, con l’arma è riuscito a ferire un agente della polizia municipale, per poi essere ucciso dall’altro carabiniere. Un incidente che ne ricorda altri accaduti negli ultimi anni (nel 2019 alla Questura di Trieste, nel 2020 a Voghera) facendo riflettere sull’opportunità, per la sicurezza di ridurre la presenza delle armi. In particolare in sanità dove sono portate anche da agenti della Vigilanza privata.

Il tema non riguarda una marginalità esclusa e sbandata che sopravvive intorno a stazioni, parchi… o si presenta ai rave party ma interessa il mondo “per bene” dove le scelte di vita, l’uso di droghe e alcool sono al contempo un fatto privato e un problema sociale, di sicurezza stradale e lavorativa prima ancora che una questione sanitaria, la quale per essere affrontata richiede sempre la costruzione di una motivazione. 

In questo quadro, appare altresì evidente una difficoltà a gestire il conflitto, la devianza e le violazioni specie quelle ripetute e di limitata entità o che si esprimono a diversi livelli, anche attraverso internet mediante il linguaggio d’odio o messaggi istiganti al suicidio. Il senso dell’autorità, del dovere e del rispetto delle norme e di quello reciproco sono in crisi in termini educativi ed etici prima ancora che penali.

Riguardano minoranze che tuttavia sono portatrici di convinzioni radicate, false credenze, teorie balzane ma portate avanti con determinazione e con una tendenza al proselitismo. Lo si è visto con il Covid, dove si sono avuti No Vax, No Green pass ma questo si sta verificando anche in ogni ambito medico e sociale (si pensi al fondamentalismo religioso e le aggressioni con auto su folle inermi, o attacchi a parroci, le aggressioni ai medici che praticano aborti). Vi sono quindi posizioni marginali, settarie, tentate ad affermare con determinazione e talora la forza le proprie ragioni, sopprimendo chi si ritiene fonte del male.

Questo in un contesto sociale che ha svalutato le competenze tecnico scientifiche, il prestigio del lavoro di cura, l’autorevolezza del servizio pubblico. Una questione che rimanda al tema, giustamente sollevato delle risorse onde ridurre il divario domanda-offerta, migliorare la sicurezza mediante un’adeguata intensità di cura senza le liste di attesa. Le risorse economiche e soprattutto umane, culturali e tecnico scientifiche sostenute dall’apporto di tutta la comunità in grado di esprimere con coerenza, capacità di accoglienza, dialogo, senso di equilibrio, giusta misura e senso del limite. Una ritrovata sintonia che superi contraddizioni e linguaggi contrastanti. 

c) Da più parti, giustamente, è stata citata la legge 81/2014 e ciò è rilevante non solo perché chiusi gli OPG, ancora non si sono definiti tutti i percorsi, i livelli di cura e la qualità delle stesse nei diversi ambiti: Istituti di Pena, Articolazioni Tutela Salute Mentale, REMS ma anche e soprattutto Residenze Psichiatriche, SPDC e Centri di Salute Mentale sui quali è ricaduta gran parte dell’attuazione della legge. Come si realizza un sistema di cura e giudiziario di comunità resta una sfida aperta e deve vedere una grande collaborazione interistituzionale (magistratura, forze dell’ordine, avvocatura, garanti, sociale e sanitario) senza deleghe improprie alla psichiatria che può esercitare un solo mandato quello della cura e della sorveglianza sanitaria. 

In questo periodo, come è stato evidenziato da molti direttori di dipartimento, la richiesta è custodiale e soprattutto di luoghi ove collocare i “disturbanti” sia a livello sociale che detentivo. Ciò sembra prevalere rispetto all’analisi dei bisogni e ad una loro risposta, puntuale e appropriata. Quando mancano documenti, permessi di soggiorno, reddito, lavoro, la casa la cura medica è assai difficile. A volte serve qualcuno che se ne occupi e l’affidamento ai servizi sociali è talora sostituito da quello ai servizi sanitari senza verificare la motivazione alla cura. I servizi di salute mentale non sono organizzati per svolgere funzioni custodiali. 

Come è stato ripetutamente rilevato le difficoltà maggiori vengono da persone con disturbi gravi della personalità, psicopatia e uso di sostanze per i quali vanno individuati percorsi specifici. La psichiatria non ha strumenti di previsione e di prevenzione, né ha la possibilità di trattare con certezza di risultati le persone con gravi disturbi della personalità. I servizi di salute mentale non vanno lasciati soli, isolati ma deve essere attivata una solida collaborazione interistituzionale. Con la persona va stipulato un “doppio patto” uno per la cura e l’altro per la prevenzione di nuovi reati, patti che siano chiari e ben delineati sotto il profilo delle competenze e delle responsabilità, evitando ambiguità.

La chiusura degli OPG è frutto di una riforma di civiltà ma incompiuta e richiede diversi interventi legislativi e attuativi. Vista l’attenzione del Ministro della Salute Orazio Schillaci mi permetto di riassumere i punti più rilevanti:

1) la riforma dell’imputabilità che abolisca art.88 e 89 del c.p. (come prevedeva il D.l 2939 presentato la scorsa legislatura dall’on. Riccardo Magi) che separi la fase valutativa da quella trattamentale e terapeutica. Deve essere bloccata l’espansione dei non imputabili e dei seminfermi di mente come accade con i disturbi della personalità (a seguito della c.d Sentenza Raso della Corte di Cassazione).  Abolizione delle misure di sicurezza detentive provvisorie e di quelle ai sensi dell’art 219 c.p per i seminfermi di mente. Al contempo serve definire un insieme di norme per l’attuazione delle misure giudiziarie di comunità, ambito nel quale si realizza anche la cura.

2) Assicurare adeguate le risorse economiche e di personale (con riferimento 5% della spesa sanitaria) superando i tetti delle assunzioni.

3) Rivedere le norme su posizione di garanzia del medico in favore del “privilegio terapeutico” abolendo l’obbligo di rapporto e referto, depenalizzare l’atto medico prevedendo responsabilità istituzionali gruppali  e allargate;

4) Ripensare la normativa sulle droghe onde evitare la criminalizzazione dei consumatori e quindi un forte impegno del sistema penale; promuovere diritti e garanzie per le persone per evitare derive e abbandoni negli istituti di pena;

5) Sul piano operativo occorre delineare percorsi di cura unitari che vadano dall’assistenza psichiatrica nel territori, negli Istituti di Pena, nelle Articolazioni Tutela Salute Mentale e servizi dei DSM comprese le REMS dando attuazione alla sentenza 99/2019 della Corte Costituzionale. Le attività di cura, comprese ammissioni e dimissioni, devono essere competenza esclusiva dei medici e non sono accettabili degenze ospedaliere o residenziali per meri motivi giudiziari. Le risposte possono essere ulteriormente qualificate e diversificate prevedendo tra l’altro forme di intervento mediante il Budget di Salute adeguatamente finanziati. Va riflettuto anche sul mandato e sull’utilizzo delle REMS visto che meno del 60% ha misure definite, la questione delle liste di attesa (la maggior parte sono di tipo provvisorio). Soprattutto va definito come si devono organizzare i DSM (Unità di psichiatria forense) e con quali risorse per fare fronte ai nuovi compiti. Riformare e superare le REMS anche con iniziative sperimentali che coinvolgano i ministeri della giustizia e interni.

d) Infine una riflessione sulla psichiatria. E’ stata colpita a morte una protagonista della ”psichiatria gentile” praticata ogni giorno con dedizione, motivazione, alte competenze e sensibilità etica da migliaia di operatori per il 70% circa di genere femminile. Una psichiatria umana, che accompagna e con tutti i suoi limiti resta accanto alle persone che soffrono.  Spesso nell’ingratitudine, nello sforzo coraggioso di aiutare persone che talora non sono consapevoli, non collaborano.

La psichiatria si alimenta di posizioni critiche nella ricerca di ambiti conoscitivi e operativi nuovi. Il momento del dolore unisce tutti nella consapevolezza della forza e al tempo stesso dei limiti di ogni psichiatria (biologica, dei trattamenti farmacologici, degli interventi psicoterapici e psicosociali). Mario Maj (2017) parla di crisi del paradigma neokraepeliniano fondato sul modello categoriale ed apre riflessioni per una nuova psicopatologia condivisa. Questa può trarre riferimenti importanti da neuroscienze (genetica/epigenetica, plasticità cerebrale) e psicologia evolutiva (salute mentale dell’intero arco di vita) per innovare attività di prevenzione e cura sempre fondate sui diritti/doveri, sull’accoglienza e il riconoscimento dell’altro, della sua umanità, anche di fronte ad eventi così tragici e irreparabili. Un’umanità che sopravvive e sa rigenerarsi in un’unità ideale di tutte le sue componenti, utenti e familiari compresi, con una dignità e autonomia lontana dalla riproposizione di rapporti ancillari con ogni potere.

* Direttore Dipartimento Salute Mentale Dipendenze Patologiche Ausl di Parma
° Lorettu L. , Falchi L., Nivoli F.L, Milia P, Nivoli G. , Nivoli A. M. L’omicidio del medico Rivista di Psichiatria 2015; 50(4): 175-180 https://www.rivistadipsichiatria.it/archivio/2002/articoli/21646/

 

Dove è finita la salute pubblica? Dal territorio alla porta chiusa di Pier Aldo Rovatti

Dal Forum Salute Mentale - Gio, 27/04/2023 - 19:00

Da “Il Piccolo”

di Pier Aldo Rovatti

Il caso specifico della psichiatria è abbastanza eloquente. Ci mostra che la salute pubblica va verso la specializzazione con tanti saluti alla sanità territoriale e a un’idea di cura comunitaria. Il medico è ormai di norma identificabile con uno specialista capace di selezionare un danno localizzabile nel nostro corpo e di provvedere a una opportuna medicalizzazione. E così tutto il sistema sanitario tende a organizzarsi attorno a una visione specialistica della malattia. Né i professionisti né quei dilettanti impersonati da ciascuno di noi con i nostri malesseri si ribellano a un simile inscatolamento tecnicistico. I medici di base hanno uno scarso potere, certo contano ma molto poco: alcuni vorrebbero sottrarsi a questa chiusura culturale, ma la loro voce sembra farsi sempre più fievole. 

Il caso della psichiatria è esemplare perché pare che non ci sia scelta e ci si debba uniformare a una visione della medicina decisamente individualistica come se la parola “territorio” fosse destinata a scomparire con tutte le buone pratiche che essa comporta. 

Basaglia? La legge 180? Stanno diventando ricordi, roba da archivio, al massimo da antologia: tracce di un passato che ormai possiede pochissimi punti di tangenza con il presente della medicalizzazione. 

Parlando con uno dei più autorevoli eredi della “rivoluzione” basagliana, cioè Peppe Dell’Acqua, salta fuori l’esempio a dir poco inquietante della “porta chiusa”, quella porta che prima restava aperta e che ora viene invece chiusa: dentro, dietro questa porta sta lo specialista che riceve il suo paziente in una sorta di separazione tecnicistica che dovrebbe apparire normale, ovvia, perfino una garanzia di serietà e di qualità dell’esperienza medica. 

Così, il cosiddetto territorio è destinato a perdere qualunque valore: niente comunicazione, niente “comunità”, niente lavoro di gruppo o di sostegno della socialità che può stringersi attorno al portatore di disturbo (!), il quale, anzi, viene tendenzialmente scollato dal suo intorno sociale, lasciato quasi sempre a sé stesso, alla sua famiglia se ce l’ha, alla sua individuale sofferenza.

Il medico, lo “specialista”, sta lassù, anzi dietro la sua porta, e quando tu esci da quella porta, con un foglio in mano non sempre decifrabile, resti come stordito tentando di ricordare le parole che ti ha detto e che non ti risultano così chiare. Avresti voglia di tornare indietro e chiedere qualche altra parola di spiegazione, ma non lo fai. 

Sto disegnando un quadro troppo buio? Certo ci sono eccezioni e forse quella porta resta un po’ aperta, tuttavia sembra evidente che l’aria che tira, la “tendenza” che muove l’attuale salute pubblica nella sua organizzazione predominante, è proprio di questo genere.

D’altronde, è lo stesso tipo di aria che si percepisce nell’intera società di oggi: difficile illudersi che in essa prevalga la socializzazione o uno spirito di comunità, poiché risulta palese che ciò che domina è piuttosto un atteggiamento individualistico, un po’ dovunque. La medicina, da salute pubblica sta trasformandosi in un rapporto individuale e individualizzante tra tecnico e paziente.

Più di dieci anni fa ho avuto l’occasione di collaborare alla promozione di una collana di libri intitolata “180 Archivio critico della salute mentale”: saggi di approfondimento storico e critico, narrazioni di esperienze personali. Adesso, oltre a constatare il bilancio positivo di questa piccola iniziativa, sarebbe proprio il momento di rilanciarla per contrastare il clima di chiusura e restrizione in cui stiamo galleggiando, sia per quanto riguarda la psichiatria sia per ciò che concerne l’intera salute pubblica. Anzi, proprio nel regime di porte chiuse che si sta affermando, dovremmo opporci a questa aria alquanto malsana che rischiamo tutti quanti di respirare a danno della nostra salute.

Trieste è stato un faro per molti anni. Oggi, facendo leva sulle vicende positive che la città ha potuto vivere, dovremmo in ogni modo tentare di impedire che il faro si spenga o produca soltanto un filo di luce, quasi annullato dal brillare incontrastato dello specialismo medico. Dovremmo cercare di riaprire tutte le porte che si sono chiuse a spese del territorio della salute e della cura.

Violenza in psichiatria, riaprire i manicomi non è la soluzione. Veronica Rossi intervista Vito D’Anza

Dal Forum Salute Mentale - Mar, 25/04/2023 - 15:42

Da “Vita”

https://www.vita.it/it/article/2023/04/24/violenza-in-psichiatria-riaprire-i-manicomi-non-e-la-soluzione/166520/

Secondo lo psichiatra Vito D’Anza, i comportamenti violenti da parte delle persone con disturbi mentali si possono ridurre attraverso una reale applicazione della riforma della salute mentale legata alla Legge 180, tramite un approccio che non neghi l’utilizzo dei farmaci, ma si componga di tanti altri elementi, come il dialogo, l’ascolto e la creazione di un rapporto di fiducia tra curante e curato. Per far questo, però, servono le risorse, che al momento scarseggiano

«Non ero il medico di Gianluca Paul Seung, ma l’ho incontrato a molti convegni e sporadicamente è venuto a trovarmi a Montecatini; l’ultima volta che l’ho visto, quattro o cinque anni fa, gli ho detto che aveva assolutamente bisogno di curarsi, perché non stava bene. Non mi aspettavo, però, questo tipo di violenza». Sono questi i ricordi di Vito D’Anza, direttore del dipartimento di salute mentale dell’ospedale di Pescia, in provincia di Pistoia, sull’uomo che avrebbe aggredito la psichiatra Barbara Capovani fuori dall’ospedale di Pisa, causandone la morte. La vicenda, tuttavia, potrebbe essere sintomo di un malessere più profondo del mondo della psichiatria, che trova le sue radici nel tradimento della riforma legata al nome di Franco Basaglia.

Dottore, episodi di questo tipo possono aumentare lo stigma legato alla malattia mentale?

Sicuramente. E in questa fase il problema più grosso è che questo contribuisce a dare un colpo alla riforma psichiatrica italiana. Ho visto dal giorno dopo costituirsi delle chat riservate a psichiatri e a specializzandi in psichiatria in cui il leitmotiv è, velatamente o meno, la riapertura dei manicomi, con centinaia di iscritti. Questa vicenda è drammatica, perché in un mondo ideale episodi del genere non dovrebbero succedere; nel mondo reale, tuttavia, succedono e probabilmente succederanno di nuovo in futuro. Anche quando erano in auge i manicomi e gli Ospedali psichiatrici giudiziari – Opg, fatti del genere accadevano: solitamente le persone in queste strutture finivano dopo aver commesso reati, non prima. Ora, però, c’è una fame di ritorno ai manicomi; oggi potremmo affermare che la riforma è completamente bloccata – per non dire che è fallita – agli occhi di tante persone. L’opinione pubblica va in tutt’altra direzione rispetto alla 180.

Anche quella degli psichiatri?

Soprattutto quella degli psichiatri. Negli ultimi anni di fatti così tragici non ce n’è stato solo uno, ma nemmeno moltissimi. Anche in pronto soccorso c’è un alto tasso di aggressioni agli operatori. Qual è la risposta, chiudere il pronto soccorso? In psichiatria, però, c’è sempre il tema della follia, della paura di ciò che non conosciamo, di quello che non riusciamo ancora a capire e ad afferrare. Il vero problema è che ci stiamo avviando verso una china dalla quale non sarà possibile risalire o, almeno, non sarà più possibile risalire applicando la riforma per come la conosciamo. Questo modo di vedere la salute mentale sta dilagando: c’è gente incolta e ignorante che imputa quello che è successo a Pisa a quella che loro chiamano «antipsichiatria», dicendo che ci sarebbero degli psichiatri troppo accondiscendenti con i pazienti.

Ma non è così.

Probabilmente si tratta di un concetto che noi che da 30 o 40 anni lavoriamo nel contesto della riforma non abbiamo ribadito con abbastanza forza in passato. Per loro, se non sei d’accordo che il farmaco sia l’unica risposta alla malattia mentale allora sei un «antipsichiatra». Il punto, invece, è un altro: esiste un modo di fare psichiatria, che è quello della riforma, in cui è contemplato il farmaco, ma ci sono anche tanti altri elementi, legati a una situazione più relazionale, umana e sociale. Di questo, ormai, si stanno perdendo le tracce.

All’indomani dei tragici fatti di Pisa, tre rappresentanti della Società italiana di psichiatria hanno scritto una lettera in cui denunciano che il 34% delle aggressioni avviene nell’ambito della salute mentale e il 20% in pronto soccorso. Come si può rendere il lavoro degli psichiatri e degli altri operatori più sicuro?

Le persone devono essere ascoltate, innanzitutto, accolte, bisogna instaurare un rapporto di fiducia tra chi sta male e chi è deputato alla cura di questa sofferenza. Invece, più si va avanti con gli anni più tutto questo viene ridotto: si mettono insieme i sintomi, si fa una diagnosi, si dà un farmaco e se in questo modo la sofferenza non diminuisce è colpa del paziente. In una situazione di questo genere gli episodi come quello accaduto a Pisa sono destinati a crescere e la risposta non è riaprire i manicomi, strutture in cui il soggetto non esiste più. Queste istituzioni non eliminano le aggressioni, perché sono ineliminabili; le violenze, semplicemente, accadevano prima che la persona entrasse negli ospedali psichiatrici o negli Opg. Com’è possibile ridurre l’aggressività e la violenza di chi ha disturbi mentali verso gli operatori? Io sono in un servizio, fatto di gente in carne e ossa, e vedo in faccia coloro che ci lavorano: chi entra in servizio adesso è molto meno sereno di chi arrivava 20 anni fa; ci vuole però tranquillità per curare persone che del tutto tranquille non sono.

Si può dire quindi che parte della responsabilità di questa situazione stia nella carenza di risorse che vive la salute mentale?

Ho passato parte degli ultimi tre o quattro anni della mia attività insieme agli operatori che fanno la prima accoglienza di chi arriva a chiedere aiuto: il personale si è drasticamente ridotto, può capitare che ci siano delle urgenze e che chi viene debba aspettare, oppure che qualcuno abbia appuntamento con un dottore ma gli si debba dire che il medico non c’è perché ha dovuto andare in ospedale a sostituire un collega assente. La carenza di risorse ha un impatto diretto su chi ha un disagio mentale e può essere una delle cause di reazioni di insofferenza che rischiano di sfociare in atti violenti.

Come si può intercettare chi non vuole essere curato?

Queste persone, che la clinica psichiatrica definisce «non collaboranti», sono sempre esistite. Il punto è che, come dice il professor Andrea Fagiolini, direttore della clinica universitaria di Siena, il farmaco, che sembra qualcosa di neutrale, di asettico, ha effetto e funziona a seconda di chi lo dà e di come lo dà, se si inserisce all’interno di un rapporto per cui una persona viene accompagnata nelle fasi iniziali, in cui comincia a prendere un farmaco e si accorge che qualcosa dentro di lei sta cambiando. Questo dovrebbe avvenire soprattutto all’interno di un servizio di salute mentale: bisognerebbe spiegare gli effetti delle sostanze, non fare la prescrizione e dire che il paziente deve prendere i farmaci perché lo dice il medico, a cui si deve ubbidire. Oggi, invece, si verifica proprio quest’ultima situazione, un po’ perché non ci sono risorse e personale, quindi nemmeno tempo per seguire adeguatamente chi vive un disagio psichico, e un po’ perché la cultura si sta purtroppo spostando in quella direzione.

Ce la faranno a realizzare il loro sogno? di Carla Ferrari Aggradi

Dal Forum Salute Mentale - Dom, 23/04/2023 - 09:00

Non mi veniva facile tradurre in diagnosi le traversate nel deserto, la prigionia nei lager libici, lo sfruttamento schiavista, la fame, le torture, la disumana ingiustizia che si nascondeva in ogni storia

Questo racconto è a due voci. La prima è di Donatella Albini, medica di bordo, e la seconda di Carla Ferrari Aggradi. E’ del novembre 2019, due mesi dopo il salvataggio della Mare Jonio, richiesto dall’ordine dei medici di Brescia. E’ un racconto visto da occhi di due mediche in due momenti molto diversi di un salvataggio.

Perché proporre questo scritto oggi, dopo più di tre anni? Perché le storie di ieri sono ancora quelle dell’oggi. Perché, come dice Carla, bisogna andare a vedere… Serve, servirebbe a tutti noi, per capire che non nasce dal nulla la sofferenza psichica di sempre più migranti. Nasce fra l’altro da incubi e traumi ai quali le nostre politiche “securitarie” sanno ben contribuire. Sofferenza di cui siamo chiamati a farci carico, perché “dalla Mare Jonio non si scende mai”. 

Due anni fa, mentre la Mare Jonio era in mare, stava cadendo il governo giallo-verde e il colpo di coda del ministero di Salvini ci mostrò tutta la disumanità possibile: mai prima e mai dopo sbarco di migranti e volontari è stato effettuato in mare di notte, a poche miglia da Lampedusa. A una nave battente bandiera italiana, anche senza migranti a bordo (già sbarcati), è stato impedito l’attracco a un porto italiano e, da una motovedetta della finanza, contraddicendo il permesso di attracco della Guardia Costiera, è stato comunicato il fermo amministrativo e il comandante e il capo missione sono stati accusati di traffico di clandestini.  

Oggi abbiamo gli sbarchi selettivi, i porti nel centro e nord d’Italia, i salvataggi “unici” e c’è stato Cutro… e così il Mediterraneo è tornato vuoto: i crimini di pace continuano…

Imbarcazione alla deriva, 400 persone, mercantili nelle vicinanze ma nessuno soccorre: Grecia Italia Malta dove siete?  Europa dove sei?

Donatella 

“Arriva un momento nella vita in cui bisogna assumere una posizione, non perché popolare o conveniente, ma semplicemente perché è giusta”, diceva Martin Luther King.
Noi siamo mediche, il nostro lavoro è avere a che fare ogni giorno con le esistenze  di donne e uomini e proteggerle, attraverso i nostri saperi.
Quando la piattaforma civile Mediterranea ci ha chiesto di salire sulla Mare Jonio e di partire per andare nel Mediterraneo a salvare chi fugge abbiamo capito che era arrivato anche per noi il momento di fare la scelta giusta.
Per prima sono partita io, Donatella, poco dopo ferragosto, ho raggiunto Licata, dove la Mare Jonio, un rimorchiatore d’altura, era fermo da mesi, dopo un salvataggio e in quei giorni era stato dissequestrato.
Dopo la partenza siamo stati giorni e notti in mare aperto, un mare deserto, senza una nave, un peschereccio, nulla, accecante di giorno cupo di notte, a scrutare costantemente, a turni di un’ora, con i binocoli nelle ore di luce, con gli occhi nelle ore di buio, quella infinita distesa d’acqua per vedere di intercettare imbarcazioni. Perché questo è il lavoro delle Ong e nostro, pattugliare, percorrere quel mare deserto a 30 miglia dalle coste libiche per vedere se c’è bisogno di soccorso.
Dopo 6 giorni di navigazione senza sosta in quel tratto di mare, poco prima dell’alba il 28 agosto abbiamo visto una piccolissima luce in lontananza, ci siamo avvicinati, era un gommone .
Erano 98, 26 donne, 5 in gravidanza, 2 presso il termine, 22 bambini, 6 tra i 5 mesi e l’anno, il più grande aveva 6 anni, 13 minori non accompagnati, 1 aveva 9 anni gli altri erano giovani maschi adulti.
Li abbiamo accolti, nel container posizionato a prua, all’interno del quale avevamo ricavato un piccolissimo spazio schermato da tende, come luogo riservato per le visite, spogliati dei vestiti impregnati di acqua di mare, benzina (il motore del gommone era rotto), feci e urine, li ho visitati una prima volta rapidamente, per capire se c’erano situazioni di emergenza, abbiamo dato loro servizi igienici e docce (1 bagno e 1 doccia per donne e bambini e 1 per gli uomini) abbiamo dato loro da mangiare e da bere, preparati i biberon e poi li ho rivisti tutti e tutte e ho raccolto le loro storie.
E’ stata una lunga giornata, attraversata da emozioni profonde: quegli occhi bassi, cupi, senza speranza, quei corpi segnati dalle torture e dalle violenze, delle 5 donne incinte 4 erano conseguenza di stupri di gruppo nei centri di detenzione libici, quei racconti, prima monotoni poi accompagnati da lacrime senza pianto, poi dal pianto e dalla ricerca di un contatto, di un abbraccio mi hanno attraversato come lame, ho capito che la verità è tagliente, taglia in 2 , in un prima e un dopo di quella verità e poi che ci sono donne e uomini con i loro bambini, loro, i bambini che erano ancora capaci di sorridere, che affrontano la morte , che in quel grande mare deserto è lì, incombe, perché ciò che vivono è peggio della morte.
Non ci hanno fatto entrare in porto a Lampedusa, nonostante le relazioni sul soccorso e sulle condizioni di salute dei naufraghi, dopo quasi 48 ore hanno fatto sbarcare donne, bambini, minori senza nessuno e 1 caso clinico importante, col mare a forza 4 dalla Mare Jonio alla barca della guardia costiera, guardate il video, già uscito sui tg nazionali, lì confesso che ho pianto e con me gli altri volontari, perché fatico a capire tanto accanimento e tanta violenza verso chi chiede il diritto di fuggire da povertà, fame, guerra, violenza.
Quelle persone a me, a ognuno di noi hanno restituito l’umanità, quella che dà senso ai gesti del mio, del nostro agire di ogni giorno.
Ne sono rimasti a bordo poco più di una trentina, stupiti dal fatto di rimanere, senza capirne il perché, addolorati.
Siamo stati loro vicini, non li abbiamo mai lasciati soli, li ho visitati, per richieste continue di dolori, che erano più dolori dell’anima .
Abbiamo sollecitato, forti del parere anche di un medico della marina militare, salito a bordo, lo sbarco presso il ministero dell’interno, nulla per 48 ore, poi un nuovo diniego.
Le persone erano segnate da una stanchezza senza fine, abbiamo pensato dovesse a questo punto salire una psichiatra, per una ulteriore relazione al ministero suffragata da uno specialista, ed è salita Carla .

Carla

Sono salita su quella che è stata chiamata “la nave dei bambini”: ne sono stati salvati 98, ma non li ho incontrati tutti perché chi stava male era già stato fatto sbarcare. 

Racconto di quei naufraghi, non di altri. C’è chi pensa che il mondo ruoti intorno al proprio giardino e separa un noi da un loro e loro sono indistinti: i poveri, i matti, i migranti… invece ci si deve fermare sulla storia di ognuno. Certo ci sono gli studi sociologici dei grandi movimenti di masse, ma noi abbiamo la responsabilità di cercare ogni singolo nome, ogni singola storia. 34 giovani vite già cariche di sofferenza ma ancora con la voglia di arrivare… 

Chiamata d’urgenza il venerdì per il sabato: apprenderò una volta atterrata a Lampedusa il vero motivo della mia presenza. Qualsiasi cosa mi avessero chiesto di fare l’avrei fatta, questo era quello che mi frullava per la testa ed ero anche contenta di andare a quell’incontro, a vedere con i miei occhi, a sentire con il mio cuore… sono sempre stata così: i racconti mi vanno bene ma poi voglio andare a vedere. Quindi mi andava bene di essere lì e di poter fare qualcosa, di poter dare una mano, quello che sapevo fare poteva servire. 

Seguivo fin dall’inizio il nuovo viaggio della Mare Jonio, faccio parte dell’equipaggio di terra di Mediterranea fin dal suo nascere e condivido le motivazioni umane e politiche che hanno fatto sì che Mediterranea nascesse: “perché nessuno possa dire domani che non sapeva”, “nessuno si salva da solo”, “prima si salva e poi si discute”. E di più: la Mare Jonio nel suo essere la prima nave battente bandiera italiana voleva svelare all’opinione pubblica i meccanismi perversi che ostacolavano gli sbarchi di migranti. 

Sono salita.  Come sono entrata la prima volta in manicomio.  E non mi sbagliavo… Non conoscevo nessuno e sul molo, in attesa del motoscafo che ci avrebbe portato sulla MJ, ho sentito Vito (Vito D’Anza) per un conforto. 

Il team legale di Mediterranea riteneva necessaria, come ultima chance allo sblocco della situazione e, quindi, allo sbarco, una relazione tecnica – sottolineo tecnica –  sulla condizione psicopatologica dei 34 migranti sulla Mare Jonio ormai da troppo tempo. 

E così, il sabato pomeriggio, sono a bordo per vedere la situazione generale e per ascoltare il racconto di alcune situazioni particolari che Donatella mi segnala; nella relazione scriverò che c’era un’aria di morte… verrò a conoscenza poi del naufragio avvenuto subito dopo la partenza del gommone. 

Ridiscendo e, nella notte, insieme ad Alessandra, la portavoce di Mediterranea, scriviamo la relazione da mandare ai tre Ministeri (Interni, Infrastrutture, Sanità) che avevano bloccato la barca a 13 miglia da Lampedusa, relazione che sarebbe dovuta arrivare sulle loro scrivanie per il lunedì mattina, dopo essere passata al vaglio del team legale.

La relazione, incentrata sulle osservazioni, sui colloqui, sui racconti della medica di bordo, degli altri volontari, sulle stringatissime ma efficaci relazioni di Stefano e Donatella su ogni ospite, è il frutto di uno sforzo emotivo enorme: non mi veniva facile tradurre in diagnosi le traversate nel deserto, la prigionia nei lager libici, lo sfruttamento schiavista, la fame, le torture, la disumana ingiustizia che si nascondeva in ogni storia.

Noi e loro insieme sulla stessa barca, e non solo metaforicamente… come allora, noi e loro chiusi fra le mura del Manicomio, oggi in mezzo al mare, fermi, dimenticati da Dio e dagli uomini: ho preso dal mio zaino tutto il mio armamentario di conoscenza ed esperienza che avevo imparato a utilizzare in ogni situazione in cui il prendersi cura cozza contro “ la legge”, va in collisione con il potere.  

Di per sé, poi, la diagnosi è molto semplice. Grave condizione post – traumatica caratterizzata da depressione, scissione, somatizzazioni, insonnia, abulia, apatia, rabbia…ecc. ecc.ecc.

Ferma, là a 13 miglia dalle coste italiane, penso al non senso che stiamo vivendo, all’assurdità della situazione, alla violenza dell’odio, alle esigenze elettorali che ci hanno bloccati lì, nave italiana… in mezzo al mare… perché? Lampedusa è lontana, si intravede di notte, quando acqua e cielo sono neri.

Sapremo al nostro arrivo, che, mentre non facevano sbarcare 34 giovani vite perché salvati da una ONG, a Lampedusa sono sbarcate, senza clamore, 400 persone con barchini di legno provenienti dalla Tunisia…

Il messaggio era chiaro: voi siete dei criminali perché trasportate “clandestini”. Non naufraghi… il paradosso è che se un naufrago mette piede sul territorio italiano automaticamente diventa un delinquente, non uno che sta annegando e va salvato, come dice la legge del Mare! 

La domenica mattina ritorno sulla Mare Jonio, Donatella scende per un meritato riposo dopo i lunghi e impegnativi giorni sulla barca… sì, una barca non una nave da crociera, un vecchio rimorchiatore d’altura che ospita 22 persone fra equipaggio e volontari e un container a poppa che ha dato rifugio ai 98 naufraghi. Chiediamo lo sbarco di una donna in grave stato confusionale e dissociativo e di due giovani uomini con diagnosi organiche; lo sbarco avviene sempre sotto lo sguardo ed i pensieri perplessi di chi, invece, non può sbarcare e non capisce perché… cerchiamo di spiegarlo ma è molto difficile rendere plausibili le ragioni politico-amministrative del nostro agire a chi ci parla,  a chi mi parla della paura/ terrore di essere riportato in Libia: “ se siamo fermi qui è perché volete/ dovete riportarci in Libia”.  E la Libia è tortura, schiavitù, stupro, annientamento. Paura, delusione, frustrazione popolano la barca.

Intanto a terra mi si accusa di aver scritto il falso… ma io sono certa che le mie diagnosi sono inconfutabili, perché non è difficile diagnosticare, complicata è stata la banalizzazione, la riduzione bidimensionale del dolore e dell’ingiustizia, insopportabile il far scomparire le vite. Sono confortata e sostenuta dai giornalisti  presenti sulla barca che immediatamente rispondono alle infamie. Sappiamo  di essere controcorrente ma siamo tutti e tutte  convinti/e di essere dalla parte del giusto nel tentativo di non far naufragare la nostra umanità insieme ai nostri ospiti.  

Si pranza insieme e il pomeriggio passa fra domande di tipo sanitario e voglia di parlare: sono richieste di attenzione, di vicinanza; qualcuno resta in silenzio, un po’ in disparte ma il loro corpo parla comunque, le ferite ancora rosa sulla pelle nera ci raccontano di qualcosa di recente.

Ma queste/i rimasti sono giovani e forti. Vogliono arrivare, vogliono toccare terra.

Intanto alcune giovani volontarie piangono: lo stress è stato tanto, non sempre tutto è andato in modo idilliaco. Qualcuno insegna qualche parola in italiano, altri scherzano, altri guardano il mare e il loro sguardo sembra andare alla ricerca di risposte…

La domenica sera arriva il temporale con grande preoccupazione nostra e di tutte/i  le naufraghe/i ; Stefano ed io decidiamo di inoltrare un’altra richiesta di sbarco per l’aggravarsi della situazione traumatica sulla barca, traumatica in sé visto che i naufraghi non conoscono il mare, traumatica per il riattivarsi della sofferenza e il terrore provati nella prima notte di navigazione sul gommone quando sono annegati 6/9 compagni di viaggio. Non sapremo mai se 6 o 9. Ci fanno attendere fino alle 2 di notte per poi comunicarci che potevamo restare in mare visto che il temporale era passato e… non eravamo annegati, aggiungo io. 

La mattina di lunedì, mentre il capitano della nave a suo rischio e pericolo ( il capitano è un marinaio regolarmente assunto da Mediterranea e se avesse forzato avrebbe perso il posto di lavoro!) propone al capo missione di forzare il blocco dato che è previsto maltempo e, sottolinea, il suo primo compito è portare in salvo le persone che si trovano sulla sua barca… Bene, il lunedì mattina, mentre facciamo colazione tutte/i insieme, due ospiti mi comunicano che dal giorno prima hanno iniziato lo sciopero della fame e della sete: sono un po’ sorpresa, ma capisco la loro disperazione; cerco di convincerli che in mezzo al mare non è una cosa buona per loro, che la loro salute potrebbe averne dei danni dato il caldo e l’arsura, che sbarcheremo… con me ci sono anche Cecilia e Stefano, ma non c’è nulla da fare, sono decisi, non hanno nulla da perdere! Decidiamo, così, che si deve fare l’ennesima richiesta di sbarco: facendo riferimento alla relazione scritta in precedenza che nel frattempo doveva essere arrivata sulle giuste scrivanie, portiamo alla conoscenza dei tre ministeri e della Guardia Costiera che la situazione potrebbe risultare incontrollabile “in un container privo di qualsiasi mezzo terapeutico ma, soprattutto, privo di spazi vitali dignitosi necessari a donne e uomini. Dentro un container non è che si può fare chissà che cosa, quindi abbiamo scritto, abbiamo scritto rimandando tutta la responsabilità a quelli che stavano dall’altra parte… “noi quello che potevamo fare l’abbiamo fatto adesso, se succede qualche cosa, la responsabilità è vostra

Tre quarti d’ora dopo, arriva la comunicazione utile per lo sbarco. 

E’ la felicità per tutte e tutti, naufraghi, volontari ed equipaggio baci, abbracci, lacrime… a loro la felicità di non essere tornati in Libia, a noi volontari la felicità annebbiata dal pensiero della loro sorte una volta sbarcati. Ce la faranno a realizzare il loro sogno? Il sogno per cui sono stati in grado di resistere a torture, sevizie, prigionia, schiavitù, degrado? Riusciremo ad aiutarli? 

Che ne sarà dei due giovani che hanno messo in campo lo sciopero della fame? Del loro coraggio nel rivendicare il loro diritto alla vita? Della donna che a 30 anni veniva chiamata “vecchia”, con i suoi dolori fisici  “inventati” ma con un dolore nell’anima infinito: rimasta vedova con tre figli, cacciata dalla casa del marito, ha vagato per tre anni prima di giungere in Libia tentando la traversata…..che ne sarà di lei?

Che ne sarà del ragazzo padre di due figli che non riusciva a dormire la notte perché erano mesi che aveva perso i contatti? E lui era partito per assicurare a loro il pane

cosa ne sarà del ragazzino con il peso sul cuore? Il peso proprio lì, dove aveva poggiato il piede il compagno di viaggio, caduto in acqua con lui la prima notte della traversata e che lui, per non annegare aveva spostato…lui si era salvato, il suo compagno era morto annegato.

Speranza, Sogno, coraggio ci portano in dono, a noi che sembra abbiamo dimenticato la capacità di sognare e di desiderare. 

Un anno dopo, dopo il lockdown pandemico, scriverò: il nostro compito a terra ha così due facce: 

– raccogliere i loro sogni e ridisegnarli come diritti, diritti che sono anche i nostri e che andiamo perdendo e non solo a causa della pandemia; 

– accogliere il loro dolore come parte di noi. L’esperienza pandemica che stiamo vivendo ci insegna, dovrebbe insegnarci che solo insieme ci si salva.

La Mare Jonio, nonostante tutti gli sforzi di rispettare le regole, è stata fatta approdare di notte, sequestrata e lo è ancora, in attesa di un possibile sblocco (conflitto fra Guardia Costiera e Ministero degli Interni) e noi volontari e volontarie ci stiamo dando da fare in terra, aspettando un nuovo imbarco… perché dalla Mare Jonio non si scende mai!

Cos’è la salute mentale. Di Franco Rotelli

Dal Forum Salute Mentale - Gio, 20/04/2023 - 17:42

Nei mesi scorsi abbiamo discusso molto sul tema “salute mentale” pensando di tenere viva la questione, convinti come siamo che è quanto mai necessario riattivare interessi e ricerche. Chiedemmo a Franco Rotelli di utilizzare questo testo pubblicato in “Quale psichiatria? Taccuino e lezioni”. Cominciamo da oggi a tenere questo filo.

Cos’è salute mentale
di Franco Rotelli

Può essere che la salute mentale sia il contrario della follia. Per quel che mi riguarda io mi immagino che essere folli altro non significhi che prendersi molto o troppo (o del tutto) sul serio. Se sta all’opposto, salute mentale non potrà che identificarsi con l’esercizio della vacuità, dell’insignificante: in sintesi la realizzazione completa dell’essere in malafede e del subire l’ottusa piattezza dell’inerzia. 

Per fortuna tra questi due estremi c’è una ragionevole dose di angoscia che quasi tutti si portano dietro e una ragionevole dose di stolidità e di menzogna che non consente alla prima di travolgere il nostro equilibrio instabile. Equilibrio chissà quanto auspicabile, chissà quanto mediato, reso tale da un contratto sociale che, misurato in merci e prodotti, costituisce la nostra commerciale formazione che tutto sopravanza e che di inclusione/esclusione decide. 

La questione vera è allora quando e perché la produzione di sentire, e un fare condiviso che vi si associ, siano possibili, credibili, dedicati ad altra utilità che non siano le merci. Il socialismo reale ci ha insegnato che via dalle merci c’è l’imbroglio, l’illibertà, l’istituzionalizzazione di un potere astratto fatto di ideologia che si fa concreta e pervasiva violenza: lo Stato. 

Ci si potrebbe immaginare che la salute mentale stia laddove un soggetto può esistere con altri, attraverso il linguaggio comunicare di sé, poter di sé parlare per differenze accettabili, costituirsi per singolarità parziale e parziale comunanza. Costituirsi ed essere costituito laddove inclusione/esclusione si tendono e rischiano tra loro, sul limite sul quale altri possono trattenerti, tu possa trattenerti e insieme possa trovarsi un comune sentire, una prassi comune, un progetto interrelato. 

Se è verosimile che solo il linguaggio ci può salvare, se è verosimile che nella follia ci sia non so se una scelta ma una sicura compiacenza, un vezzeggiamento continuo, una seduzione subita, un arrovello accarezzato, un’identità estrema purchessia, l’altro diventa ancora più decisivo del tuo futuro. Se solo l’altro può salvarti da te, può trattenerti al di qua, può forse anche spingerti di là o lasciarti, abbandonato e naufragato, irrelato, solo di questo è utile parlare.

Molto altro non so. So poi allora che, quando il limite è oltrepassato, il sociale contratto prevede che qualcuno si debba per professione e servizio, per statuale compito, in qualche modo occuparsi di te. E abbiamo pur visto che cosa lì può accadere e vediamo ogni giorno che cosa accade e rischia di accadere. Come lì possa essere cementata l’esclusione, la tua non salute giudicata e oggettivata la malattia (occorrendo però anche essere consapevoli che è forse meglio essere “malati” che indemoniati o simili, con ragionevole dubbio pensando che sia meglio di te si occupi il soi-disant medico piuttosto che un soi-disant esorcista e forse meglio un ospedale piuttosto che l’esilio al limite del villaggio). 

Si tratterà di capire meglio se da lì sia possibile che si riannodino i fili dell’inclusione o si aggravi sempre e solo il fardello di un’esclusione spesso irreversibile e irrevocabile attraverso professioni e servizi dedicati. 

Se è chiaro che salute e malattia sono spesso compresenti nel corpo e nell’anima, se più difficile è dire qui dove l’una, la salute, comincia e l’altra, la malattia, viene colta, difficile sfuggire alla sensazione che le parole non indichino nulla di quel che davvero accade qui. L’inadeguatezza della parola attiene alla loro natura razionalizzatrice che par proprio inadeguata alle peculiarità dell’irrazionale. Usare il linguaggio per entrar dentro la follia è come usare un metro per misurare un liquido. Ma è allora adeguato il linguaggio per parlarci di che cosa sia la salute della mente, di quali ingredienti si nutra una mente in salute e salute agli occhi di chi? Degli altri che mi osservano e giudicano o di me che mi rivolto nel sonno o nella veglia per far fronte alle minacce guerriere che mi sono ogni giorno rivolte e tento così conservarmi in salute? 

E per altro, la secessione dal mondo che è l’esclusione incorporata, l’aggressione interiorizzata e autovalidata, sarà il segno estremo della follia o l’ultimo residuo di mentale salute, difesa a oltranza e contro ogni evidenza? (bisognerebbe poi interrogarsi su questo strano destino: se sia cioè proprio destino che si debba passare il tempo a difendersi dalla “concorrenza”). 

Ma la questione vera resta se abbia qualche senso domandarsi cosa sia la salute o malattia mentale all’interno di un’organizzazione sociale che decide lei cosa sia l’una e cosa sia l’altra. Il controllo sociale pressoché totale fa sì che dalla famiglia al sistema sanitario o sociale “la presa in carico” del presunto disturbo mentale, il giudizio sul venir meno della salute mentale di un individuo, siano in genere precoci e fulminee. Potrebbe essere salute mentale l’essere liberi dalla concorrenza, dalla necessità di produrre più e meglio, dal rischio di esclusione per inadeguatezza rispetto alle leggi del mercato (che possono includere il saper pescare, cacciare, saper di letteratura e teatro, essere sorridenti e spiritosi, saper cantare e ballare, esser pieni di iniziative e fantasie, disinvolti e sommelier, erettili e aggiornati, informatizzati e muscolari e comunque produttori di una qualsivoglia merce in voga). Potrebbe salute mentale essere l’infinito divertimento del riconoscersi finalmente tutti diversi e non perciò diseguali (non voglio andare a cercare in biblioteca se l’uguale radice di “diversità” e “divertimento” abbia ragion d’essere, mi basta pensarlo e mi piace). Cosa invece stabilisce in concreto questa micidiale equivalenza tra salute mentale e omologazione, se non la nostra paura di perderci nel non riconoscimento dei miei omologhi? Anche la letteratura, l’arte, il cibo, la poesia, il teatro sono ormai puri prodotti di consumo, oggetti di conversazione futile come attorno alla qualità di creme di bellezza e degli stock di roba firmata. Il pensiero proprio non esiste più come riconoscibile, oggetto di ironia nel migliore dei casi, la trasformazione del mondo essendo ormai un concetto vuoto di uomini e idee. Se l’unico progetto condiviso è lo Sviluppo (e il consumo) lì sarà l’indicatore di salute mentale o al meglio nella casetta in Toscana dove si coltiva l’orto e il pisello odoroso, mai là dove la fatica del vivere realizza il suo rischio e la sua finitudine, scopre l’uomo nella sua infinita miseria e ne assume però l’onere. 

L’evidente ovvietà di quel che sto dicendo ha singolare non riconoscimento nel novanta per cento delle pratiche di chi fa professione di produzione di salute mentale, le scienze “psy” si dislocano altrove e organizzano pensieri, modelli, pratiche e concetti di tutt’altra natura, sovrapponendo autore e autore in un lungo monologo senza fine, soliloquio potente perché costitutivo di corporazioni di potere-sapere, perché merce che si accumula e capitale che si riproduce, inverificato, gratuito, per lo più autoreferenziale, intangibile per crociati consensi. 

La psichiatria è stata (e lo è ancora in vari luoghi) una sorta di strumento del terrore inteso come azzeramento e attribuzione di un’identità insopportabile. 

“Basagliano” diverrà allora il pensiero sensato (ormai introvabile), l’agire a etica minima ispirato, la pratica decente delle istituzioni e degli istituti, un’azione dotata di quel minimo di critica alla vacuità scientifica istituita nelle apposite società di cui la Psichiatria Forense è l’apogeo, deistituzionalizzare il pregiudizio, relativizzare ogni giudizio, rispettare quel prendersi tanto sul serio, con ciò forse potendo spezzarne le mura, per un’ansia di democrazia che possa ridurre in qualche modo l’obbligo della malafede come unica difesa dalla follia. 

Ce lo potrà permettere l’avere autonomi progetti, avere un socius in questo, dei complici qua e là, costruire assieme all’altro una frase di cui sapevamo solo qualche parola, qualcuno o qualcosa che non si stanchi della tua difformità. E se fossimo addirittura capaci di costituire l’altro a valore? Forse (psichiatri) avremmo cominciato a fare il nostro mestiere. Sarà sempre tardi. 

2006

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